Schede
Il canonico Carlo Cesare Malvasia (1678), nella sua ben poco benevola biografia di Francesco Gessi, si soffermò sui due grandi dipinti realizzati dall’artista per San Girolamo della Certosa, la Cacciata dei mercanti dal tempio e la Pesca miracolosa, affermando che, ottenutane la commissione per aver proposto un bassissimo prezzo, realizzò due quadri “così insulsi, storpii, e scorretti, che non si può veder peggio”. Per gli stessi padri certosini, continua Malvasia, l’artista realizzò anche “la tavola della Resurrezione nel Capitolo, che fu vantaggio per la sua riputazione non meno, che per lo buon servizio de’ quei religiosi, che non finisse e terminata poi fosse dall’Albani”. Appare pertanto plausibile desumere che il dipinto, iniziato da Francesco Gessi nell’ultima fase della sua vita, venisse lasciato incompiuto a causa della sua morte, sopravvenuta nel 1649.
La presenza di due diverse mani risulta facilmente individuabile dall’analisi stilistica dell’opera, in particolare appare indiscutibilmente da riferirsi allo stile di Francesco Albani l’esecuzione dell’angelo seduto sul sarcofago, del Cristo risorto e degli angioletti in gloria. Non è da escludersi che l’impostazione dell’opera fosse già stata improntata nella sue linee generali da Francesco Gessi, che dovette portare ad un buon livello di esecuzione la parte bassa del dipinto, densa di quella intensificazione del timbro cromatico già riconosciuta alle altre opere realizzate per la Certosa, e dovuta ad un riaffiorare di memorie caravaggesche filtrate attraverso l’esperienza napoletana ed intessute di tonalità cromatiche proposte a Bologna dal Guercino. Per quanto ancora visibile in una tela in parte compromessa, nella parte bassa la distribuzione delle figure appare abbastanza disomogenea, con i soldati che si dispongono in maniera prospetticamente un poco confusa intorno al sarcofago, mentre le donne sono relegate, figure quasi evanescenti, sullo sfondo. Eppure dal punto di vista iconografico il loro ruolo sarebbe dovuto essere centrale, visto che secondo il Vangelo di Matteo – qui tradotto quasi letteralmente – ad esse era stato riservato l’annuncio della Resurrezione. Iconograficamente già impostato, il dipinto venne completato dall’Albani il quale, decisamente lontano dal registro cromatico improntato da Gessi, insistette sulla bianca figura dell’angelo posato sul sarcofago, e sulla luminosa figura di Cristo risorto, memore dello svettante Salvatore dal vessillo spiegato che si vede nella Resurrezione eseguita nel 1593 da Annibale Carracci per la cappella di casa Luchini in Bologna ed oggi conservato al Museo del Louvre.
L’anziano Francesco Albani, sempre meno avvezzo a quelle date ad affrontare opere di grandi dimensioni, si era già confrontato con la necessità di portare a termine opere lasciate incompiute dalla morte di un artista. Fu il caso ad esempio del dipinto raffigurante la Visione di san Filippo Benizzi, iniziato da Simone Cantarini per la chiesa di San Giorgio in Poggiale, anch’esso lasciato incompiuto nel 1648 a causa della morte del Pesarese e messo in opera sull’altare, dopo l’intervento di Albani, nel 1650. Se la chiamata di Albani da parte dei Serviti di San Giorgio in Poggiale risulta facilmente comprensibile, considerando che l’artista realizzò all’interno della loro chiesa una delle sue opere più importanti, vale a dire il Battesimo di Cristo, più difficile è comprendere l’intervento di Albani in Certosa, dove a suo nome non risponde nessun dipinto completamente autografo. Nei medesimi anni in cui Albani dovette intervenire sulla Resurrezione venne realizzato, per la prima cappella a destra della chiesa, il grande quadro (cm 374 x 490) con l’Ascensione di Cristo terminato nel 1651 dal fedele allievo Giovanni Maria Galli detto Bibiena, che eseguì un’opera di tale fedeltà allo stile pieno del maestro da essere quasi, come affermò Luigi Crespi, confuso con un quadro di gioventù dello stesso. Difficile è oggi sapere se la scelta di affidare l’opera all’allievo fosse dovuta all’intercessione dello stesso Albani, forse esso stesso consapevole della difficoltà di affrontare in prima persona un’opera di tale respiro, o conseguisse da una decisione dei padri che preferirono affidarsi al giovane artista. Il vecchio Albani si sentiva evidentemente sopraffatto delle giovani leve della pittura, una difficoltà di comprendere il nuovo che si intuisce anche dal racconto di Gian Pietro Zanotti che narra come, interpellato da Lorenzo Pasinelli per averne un giudizio sulla grande tela raffigurante l’Entrata di Gesù a Gerusalemme del 1659, sempre per la chiesa della Certosa, Albani “all’apparire di sì vasta operazione, restò attonito”. Sconcertato di fronte ad un’impresa per lui ormai in parte incomprensibile, ad Albani non restava che sfoderare la sola pietra di paragone per lui ancora pervicacemente valida, la pittura del grande Annibale Carracci.
Giovan Francesco Gessi (Bologna, 1588 - ivi, 1649) e Francesco Albani (Bologna, 1578 - ivi, 1660), Resurrezione di Gesù Cristo, 1648/1651 circa, tela, cm 365 x 266. Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 7059. provenienza: Monastero della Certosa di Bologna, sala del Capitolo.
Elena Rossoni
Dalla scheda in Pinacoteca Nazionale di Bologna. Catalogo Generale. 3. Guido Reni e il Seicento, Venezia, 2006. Pubblicato in Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna, Bologna, 29 maggio - 11 luglio 2010. © Pinacoteca Nazionale di Bologna.