Schede
Da essa entrava ed entra tuttora la grande via romana del Console Marco Emilio Lepido che tanta importanza ebbe per lo sviluppo e la storia della città, ma anche perchè essa fu senza dubbio la più grandiosa e la più bella di tutte le Porte bolognesi del XIII secolo, come si rileva dalla eccezionale ampiezza degli archi e dalla preziosità del laterizio impiegato.
Da questa Porta entravano i Legati venivano a governare la città ed i suoi archi videro il passaggio di papi e imperatori; particolarmente ricordevole fu l'ingresso solenne di Pio IX e del suo seguito quando il 9 giugno 1857 visitò Bologna nel corso del famoso viaggio attraverso le quattro Legazioni. Il 15 settembre 1398 viene registrato dai cronisti bolognesi un singolare avvenimento: i rappresentanti della Compagnia Bianca della Misericordia escono dalla Porta Maggiore per recarsi dal Signore di Imola ad impetrare il permesso per potere celebrare la Santa Messa su di un terreno della città romagnola. La missione era composta di 100 uomini vestiti di bianco, montati su cavalli che portavano candide gualdrappe; questa Compagnia di devoti, che aveva le sue origini a Modena, interpretava sul finire del XIV secolo l'anelito di pace popolazioni emiliani, continuamente in guerra le une contro le altre in anni particolarmente densi di conflitti e di lotte di parte. Essa si proponeva di ottenere dal Cielo, con atti di devozione, processioni predicazioni, quella pace che uomini sembravano avere irrimediabilmente perduta; il 25 agosto, in occasione della venuta dai bianchi pacifisti modenesi, si erano riunite a Borgo Panigale ben 50.000 persone. Anche nel settembre i bolognesi che si recarono nel territorio di Imola per pregare furono numerosi ed uscivano dalla Porta Maggiore in una interminabile processione cui facevano seguito carri colmi di masserizie ed anche soldati armati, con il compito di garantire con eventuale azione di guerra l'incolumità degli oranti per la pace.
Fra le tante memorie che si ricollegano a questo monumento famoso, mi piace ricordare che nel 1859, durante il periodo cruciale del nostro Risorgimento, proprio attraverso Porta Maggiore e sotto gli occhi di dazieri tolleranti si svolgeva il traffico delle munizioni che venivano raccolte in Romagna, per la Società Nazionale, da Don Giovanni Verità, trasportate fin nell'interno della città da quel Cesare Ghedini che, insieme al socio Dionigio Marani, teneva il deposito d'armi dei patrioti bolognesi nel suo fondaco di legname al piano terreno di via Castiglione n.6. Anche la Porta Maggiore, come tutte le altre Porte dell'ultima cinta murata di Bologna, ebbe le sue traversie che le apportarono nel tempo modifiche tanto radicali da rendere perplessi storici e studiosi su quale fosse la sua reale struttura nel periodo del libero Comune e della Signoria. E' noto, secondo quanto riportano le cronache del tempo, che, dove ora esiste questa Porta, Giulio II fece nel 1507 una rocca che doveva costruire un rifugio sicuro per i suoi Legati nel caso si accendessero tumulti fra i bolognesi, considerati sudditi troppo fieri e dalle tendenze piuttosto rivoluzionarie; la fortezza fu donata di feritoie e di cannoniere rivolte verso la città e, nel 1512, ben munita di guardie armate e di artiglierie, fu posta al comando del fiorentino Francesco Frescobaldi. Il Guidicini nelle sue "Cose notabili della città di Bologna" ricorda che, durante la festa per l'elezione di papa Leone X, una palla di cannone di 8 libbre sparata dalla rocca andò a colpire la Torre Asinelli provocando un comprensibile panico fra i battirame che avevano le loro botteghe tutt'intorno alla base della torre medesima. Nel 1550 il Pontefice per fare cosa gradita ai bolognesi, ordinò di abbattere definitivamente la rocca, la quale però fu di nuovo in parte ripristinata nel 1555, questa volta per iniziativa del Senato bolognese; solo nel 1709 il fortilizio fu completamente distrutto perchè ormai anacronistico ed inutilizzabile.
Nel frattempo la Porta subiva anch'essa, come la rocca, le conseguenze degli umori degli uomini e dell'evoluzione dei tempi, entrando in una fase di chiusure, riaperture, spostamenti e metamorfosi che la portarono infine alla ricostruzione eseguita nel 1770 su disegno di Gian Giacomo Dotti, il quale la concepì con due fronti staccate: una intera ed una esterna, divise fra loro da un cassero. Questa edizione della Porta Maggiore resistette fino ai primi del novecento e quando si procedette alla demolizione della Porta esterna furono rinvenuti, con grande sorpresa, i ruderi della Porta antica e un ampio fornice a sesto acuto che permisero la ricostruzione della Porta come ora possiamo ammirarla, monca però della sua sovrastruttura a torre che non fu eseguita mancando elementi sicuri per poterla ricostruire. Comunque, la struttura possente di questo antico monumento, non lascia dubbi su quella che doveva essere la sua mole originaria.
Mi sembra opportuno ricordare una curiosità che forse alcuni non conosceranno: a sinistra dell’esterno della Porta Maggiore avrebbe dovuto essere scavato secondo il progetto del 1580 dell’architetto Andrea Ambrosini un ampio un ampio bacino per le navi, dal quale avrebbe dovuto nascere e procedere, con la larghezza di due barche, un canale navigabile che, per linea retta ed attraverso le città di Imola, Faenza, Forlì e Cesena, sarebbe arrivato al Porto di Cesenatico. Il progetto arditissimo, che avrebbe collegato nel modo più breve Bologna con il mare, rimase lettera morta; ma ancor oggi l’idea di una simile opera, naturalmente pensata e condotta con criteri più razionali ed adeguati, risulta non del tutto abbandonata e chissà che un giorno, nell’evolversi di tante iniziative in atto per attivare un’efficiente navigazione interna, anche il progetto dell’ Ambrosini non venga rispolverato. Oggi la Porta Maggiore, declassata ad una prosaica funzione di spartitraffico, colpire ancora per la sua potente struttura e per la serena maestà che la impronta, salda là dove gli eventi storici la vollero, specchio e simbolo dell’alterezza e della possanza del libero Comune.
Testo tratto da Athos Vianelli, Mura e porte di Bologna, Tamari Edirore, Bologna, 1963. Trascrizione a cura di Giulia Alvisi.