Schede
Sorti per «amplificare la forza evocativa del mito risorgimentale» e conseguentemente incentrati sulla «rappresentazione di un Risorgimento risolto interamente nelle vicende militari e identificato con le gesta dei singoli personaggi», i musei del Risorgimento non potevano non dare ampio risalto espositivo a fucili, pistole, spade e sciabole. Nel primo Congresso della storia del Risorgimento svoltosi nel 1906 a Milano, come è noto, si confrontarono due concezione museologiche profondamente diverse; tuttavia sia «i pretoriani della scienza» sia «le vestali del mito» concordavano sul fatto che «una memoria come una sciabola, una bandiera, una divisa od altro offrano l’espressione materiale di una idea o di un fatto storico»: le armi erano oggetti degni di essere conservati ed esposti in un museo del Risorgimento, in quanto ricordo di un personaggio illustre, testimonianza di un’impresa d’eccezione, o almeno documento di un’epoca storica. In parole povere, il valore di un’arma all’interno del museo si risolveva nel suo essere ‘cimelio’. Tale preminente, se non esclusiva, considerazione delle armi come ‘cimelio’ influenzò in maniera determinante il modo in cui esse vennero acquisite, conservate, esposte, descritte, studiate. La modalità di acquisizione esclusiva fu la donazione e questo non può essere soltanto spiegato con la cronica mancanza di mezzi che da sempre ha afflitto il Museo: stampe, manifesti, dipinti, volumi, venivano e sono tuttora acquistati, seppure con grande parsimonia; le armi invece no. La donazione infatti, in quanto effettuata di solito dagli eredi del patriota a cui l’arma era appartenuta, era la migliore garanzia dell’‘autenticità’ che, come si è detto, era la condizione principale che rendeva l’oggetto degno di essere conservato.
Una volta entrata nel Museo l’arma era ‘intoccabile’; si trattava infatti di una ‘reliquia’, più eloquente e più pertinente degli occhiali o del fazzoletto di un patriota, ma non diversa qualitativamente. Le armi quindi non furono mai smontate anche se, in certi casi, tale operazione avrebbe consentito una manutenzione più adeguata, ma vennero conservate così com’erano al momento della donazione e, nel caso in cui ne mancasse una parte o ne avesse una non pertinente, furono lasciate nelle stesse condizioni in cui si trovavano al momento del loro arrivo. Una prassi ben diversa da quella adottata dai collezionisti di armi, per i quali è invece importante possedere il ‘modello’, vale a dire una sorta di tipo ideale dell’arma; essi quindi non esitano a pulirla a fondo fino a renderla come nuova e ad integrare il pezzo mancante (o sostituire quello spurio) con un altro più congruente al modello, anche se di diversa provenienza.
Quanto alla modalità espositiva, molto spesso l’arma venne collocata accanto agli altri cimeli relativi alla battaglia o al patriota a cui si riferiva. In altri casi le armi vennero esposte insieme, separandole fisicamente dagli oggetti e dai documenti a cui ciascuna di esse era correlata; tale scelta era dettata da ragioni legate alla conservazione (l’arma appoggiata su un documento o su un’uniforme avrebbe potuto danneggiarli), da motivi estetici o di spazio (le armi esposte insieme nelle rastrelliere ne occupano meno); in ogni caso si tratta di ragioni ben diverse da quelle che portano i musei di armi ad esporre le armi simili le une vicino alle altre, in modo che sia possibile al visitatore esperto apprezzare le diverse varianti del modello. Quanto alla descrizione contenuta nelle schede e nell’Inventario topografico della sala espositiva redatto a partire dal 1904 e aggiornato con gli stessi criteri fino ai primi anni ’30, essa risulta spesso sommaria e in ogni caso risponde alla mera esigenza pratica di identificare in qualche modo l’oggetto. La presenza di un marchio o l’identificazione di un fabbricante non erano ritenuti dati significativi, così come venivano taciute quasi sempre la tipologia o il modello, mentre invece si tendeva ad enfatizzarne la storia: il nome del proprietario, le eventuali circostanze in cui fu utilizzata, il nome del donatore. È ovvio che descrizioni cosiffatte risultino spesso fuorvianti o addirittura errate. Tanto per fare un esempio, l’arma inv. 38 è una sciabola mod. 1855 per uffciali di fanteria del Regno di Sardegna; nell’Inventario topografico però viene detto che si tratta di una sciabola della Guardia Civica Pontificia (1848); il motivo di tale errore sta nel fatto che essa venne donata dagli eredi del proprietario, Emidio Monari, insieme a carte che documentavano con una certa ampiezza la sua partecipazione agli avvenimenti del 1848-1849 (tra l’altro, era stato ferito alla battaglia della Montagnola), mentre poco o nulla dicevano degli anni successivi, nei quali, evidentemente, Monari aveva acquisito l’arma in questione… Va per altro aggiunto che le armi avevano una tale capacità di evocare di per sé battaglie ed eroismi che, col passare del tempo, esse vennero accolte nel museo anche indipendentemente dal loro status di cimelio. Ancora a titolo di esempio, si può citare il caso di Luigi Gherlinzoni che nel 1928 lasciò «per dovere patriottico » in dono al Museo la sua collezione «di armi varie, indumenti e oggetti vari, che ricordano dall’inizio della guerra del maggio 1915 […] per comporre un ricordo, costituendo una parte di cimelo [sic]». L’insistenza sullo status di ‘cimelio’, sulla memoria della guerra vittoriosa, sul senso ‘patriottico’ della donazione sembrano quasi altrettanti espedienti per celare il fatto che soltanto alcune delle 29 armi donate da Gherlinzoni erano effettivamente relative al primo conflitto mondiale. C’erano invece una ventina di pistole a luminello e rivoltelle a spillo che erano estranee alla logica con cui il Museo era sorto e che, arricchendo una raccolta di armi da fuoco corte che allora constava di meno di 50 esemplari, se non ne stravolgevano completamente la fisionomia, la modificavano però in misura apprezzabile.
Tale tendenza divenne ben più marcata in seguito alla legge 110 del 18 aprile 1975 la quale, con l’art. 32, destinò alle raccolte pubbliche le armi di interesse storicoartistico versate all’autorità di pubblica sicurezza e alle direzioni d’artiglieria. In forza di tale legge, nel 1996 pervennero al Museo più di 140 armi da fuoco e alcune armi bianche, risalenti per lo più alla fine del XIX sec. e ai primi decenni di quello successivo: con tale arrivo la collezione non soltanto si è incrementata notevolmente da un punto di vista quantitativo (rispetto alle altre tipologie di oggetti, le armi sono quelle che negli ultimi decenni hanno avuto il maggiore incremento, in assoluto e in percentuale), ma ha anche modificato in misura significativa le proprie caratteristiche qualitative. Le armi arrivate, oltre ad essere in gran parte civili e a risalire ad un periodo successivo a quello risorgimentale, non hanno conservato alcuna traccia del loro passato: sono cioè prive dello status di cimelio che invece costituiva la caratteristica peculiare degli oggetti che erano pervenuti nei primi anni di vita del Museo; esse potrebbero essere state utilizzate dai partigiani durante la Seconda guerra mondiale, oppure da delinquenti comuni, appartenere alla storia maggiore o minore del nostro Paese… non lo sapremo mai. I successivi versamenti dovuti alla legge 110 – 4 armi nel 2004, 6 nel 2009, 12 nel 2012 – hanno rafforzato ulteriormente questa presenza di armi civili, ‘prive di storia’ e successive al Risorgimento. Fornire qualche dato statistico al riguardo può essere illuminante. Le armi che, esposte nel Tempio del Risorgimento (1888), costituirono il nucleo originario del Museo, erano in tutto 59, di cui poco meno di 40 erano armi bianche. Di ciascuna di esse era nota la provenienza, e quindi potevano essere considerate cimeli, in senso più o meno stretto. Da un punto di vista cronologico, 10 erano relative all’epoca napoleonica (si trattava delle armi appartenute a Gioacchino Murat), alla rivoluzione del 1831, 22 al biennio 1848-1849, 8 al 1859-1860 e 14 al periodo postunitario (gli studi che evidenziano una maggiore partecipazione popolare alla Prima guerra di Indipendenza rispetto alla Seconda trovano qui una piccola ma significativa conferma).
Al momento dell’entrata in vigore della legge 110 del 1975, erano divenute poco meno di 400, di cui poco più di 220 erano armi bianche. Vent’anni dopo, le armi bianche erano circa 300; ovviamente, quelle relative all’epoca risorgimentale avevano avuto un certo incremento: le armi ascrivibili al periodo napoleonico, ad esempio, erano passate a poco meno di 30. Ma la vera novità era rappresentata dalle armi bianche di Paesi coloniali ed extraeuropei (poco meno di 20) e soprattutto da quelle di epoca successiva al 1870: particolarmente numerose quelle relative alla Grande Guerra (oltre 40), ma non mancavano esemplari legati al secondo coflitto mondiale. Questo mutamento è ancora più marcato nella raccolta delle armi da fuoco, che non soltanto sono aumentate in misura maggiore e oggi sono ormai più delle armi bianche, ma che presentano una percentuale molto alta di armi civili, ‘prive di storia’, risalenti al XX secolo. Il grande incremento della raccolta di armi non ha però mutato una caratteristica già presente nella raccolta del Museo (e tipica in generale di questi musei): la mancanza quasi assoluta di armi italiane da truppa. Il fatto è che «le armi della truppa erano di proprietà dello Stato» e «fino a pochi anni fa era anche proibita la detenzione da parte dei privati», mentre quelle degli ufficiali erano e sono tuttora di proprietà personale. Su questo punto basti ricordare che il Museo conserva una trentina di fucili da truppa austro-ungarici della Prima guerra mondiale e soltanto due fucili italiani, i quali tra l’altro per arrivare a Bologna seguirono un percorso piuttosto rocambolesco: durante la ritirata di Caporetto l’ufficiale medico Giovanni Ruffini li aveva trovati abbandonati dai soldati italiani in fuga, li aveva raccolti e nascosti presso contadini del luogo; così alla fine del conflitto poté tornare a recuperarli per donarli al Museo dieci anni dopo… Su questo punto la legge 110 non ha avuto alcuna conseguenza, dal momento che quanto disposto in essa in materia di versamento ai musei non si applica alle armi in dotazione ai Corpi armati dello Stato eventualmente destinate alla distruzione. Essa però, oltre a modificare parzialmente le caratteristiche della collezione di armi del Museo, si è rivelata nel tempo decisiva anche per un altro aspetto: imponendo a musei e raccolte d’armi l’obbligo di redigere e tenere aggiornato un inventario delle armi conservate, spinse anche il nostro Museo ad effettuare una ricognizione completa del proprio patrimonio oplologico, innescando un cambiamento di prospettiva che nel tempo si sarebbe rivelato decisivo.
L’inventario delle armi così redatto a metà degli anni ’70, suddiviso in armi da fuoco lunghe, corte e armi bianche, non soltanto costituì il primo (ed unico) inventario tipologico presente in Museo, ma fu anche il primo strumento di corredo realizzato dal Museo in cui l’esigenza di identificare con sicurezza l’oggetto prevaleva su quella di raccontarne la storia più o meno eroica: per la prima volta e in maniera sistematica, tutte le armi vennero infatti misurate, trascrivendone le iscrizioni, i numeri di matricola (fondamentali dal punto di vista della pubblica sicurezza, e fino ad allora del tutto trascurati) e i marchi (almeno quelli visibili senza smontare l’arma). Fu questo il motivo per cui, quando verso la fine degli anni ’80 venne avviato il progetto di catalogazione degli oggetti del Museo, si partì proprio dalle armi. Mediante gli opportuni raffronti con la documentazione presente nell’Archivio del Museo (vecchi inventari, registri di ingresso, atti d’uffcio…) venne effettuato un tentativo sistematico di identificare la provenienza e di ricostruire la storia di tutte le armi, le essenziali vicende biografiche dei proprietari e la relazione con i fatti d’arme ad esse relativi. Vennero inoltre esaminati e studiati i marchi (dei fabbricanti, dell’esercito, dei proprietari…) tentandone sistematicamente l’identificazione; vennero riconosciuti i modelli d’ordinanza delle armi militari; vennero ricostruite le relazioni tra ogni arma e i documenti presenti nell’Archivio, e fu dato conto di eventuali particolari tecniche di lavorazione e/o di fabbricazione. Esito di questo lavoro, che si avvalse di diversi esperti ciascuno dei quali portò il proprio specifico contributo, furono i due cataloghi, che vennero pubblicati come numeri monografici del «Bollettino del Museo del Risorgimento» nel 1998 (armi bianche)11 e nel 2004 (armi da fuoco). Tali opere da un lato costituirono il punto di arrivo di un lavoro avviato più di vent’anni prima, dall’altro hanno posto le basi per un dialogo e una collaborazione tra il Museo e il mondo degli studiosi di armi che, secondo diverse forme e modalità, prosegue tuttora.
Otello Sangiorgi
In collaborazione con IBC - Istituto per i beni culturali dell'Emilia Romagna.