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L’architettura del Novecento in Certosa - nuovi linguaggi e nuovi materiali

Galleria del Chiostro IX

Dettagli

L’architettura dell’eclettismo | Gli ultimi decenni dell’Ottocento ed il primo ventennio del Novecento videro a Bologna il realizzarsi di un’intensa attività edilizia che si espresse con il linguaggio architettonico dell’eclettismo. Linguaggio che si caratterizzò sia per i suoi peculiari aspetti stilistici sia per l’uso di nuovi materiali e nuove tecniche costruttive. Anche in Certosa vedono la luce in questo periodo edifici di architettura eclettica: in particolare gli ampliamenti verso est, quali i chiostri VI e IX, con le relative gallerie, ed il nuovo ingresso monumentale su via della Certosa. In questi interventi, per la prima volta, vengono impiegati marmi di importazione e strutture in cemento armato oltre ad una vasta gamma di elementi decorativi e di rivestimento in cemento. Negli anni dell’eclettismo storicista la storia dell’architettura, non solo europea, era vista dai progettisti come un immenso catalogo dal quale poter attingere a piacimento per la creazione di edifici negli stili di diverse epoche e culture a seconda di ciò che si riteneva più consono all’uso: lo stile romanico o il gotico per chiese e opifici, il “cinese” per i padiglioni di parchi e giardini, il cinquecentesco per edifici pubblici e di rappresentanza e così via. Non mancano altresì esempi di cimiteri in stile “egizio” o residenze fiabesche in stile “moresco”, come è il caso della Rocchetta Mattei a Riola di Vergato. Nelle architetture di quest’epoca non è raro inoltre imbattersi, anche nel medesimo edificio, nella fusione di stili di epoche e provenienze diverse oppure, ed è questo il caso del nuovo ingresso monumentale della Certosa, nell’assemblaggio del tutto fantasioso di elementi della classicità accostati liberamente tra di loro e con inediti rapporti dimensionali.

Chiostro VI e galleria annessa | Il piano regolatore della Certosa del 1882 aveva previsto l’ampliamento ad est del cimitero per sopperire all’aumentato numero di tumulazioni ed in ossequio alle nuove norme di sanità cimiteriale. Fu così che in attuazione del piano, ma non senza qualche polemica e contestazione, il 28 dicembre 1894 il Consiglio Comunale di Bologna espresse parere favorevole al progetto di Filippo Buriani per il nuovo chiostro VI e la relativa galleria. Filippo Buriani era stato da poco nominato ingegnere responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale ed aveva alle spalle una lunga carriera di progettista libero professionista. Fino ad allora si era distinto più che altro nella realizzazione di edifici civili ed industriali per i quali aveva quasi sempre adottato, in perfetta sintonia con l’imperante eclettismo dell’epoca, lo stile romanico-gotico caratterizzato dall’uso del mattone a facciavista sobriamente arricchito da un discreto apparato decorativo anch’esso in terracotta. Nel progetto del Chiostro VI, al contrario, Buriani adottò uno stile classicheggiante e altisonante e, forse influenzato dal clamore suscitato dalla costruzione del pressoché coevo monumento romano del Vittoriano di Giuseppe Sacconi, volle accentuarne il carattere monumentale mediante l’uso estensivo del marmo di Campiglia, cosa questa che rappresentò una eclatante novità nel panorama edilizio della Certosa. Il progetto, pur ricalcando la consueta tipologia della grande sala-galleria dotata di corpo centrale di bipartizione ed annesso chiostro porticato, oltre al marmo di cui si è detto, presenta anche altre novità di rilievo: sia negli aspetti edilizi sia in quelli più propriamente compositivi. Per la prima volta a Bologna sono previsti grandi solai in cemento armato da realizzarsi secondo il metodo Hennebique da poco introdotto nell’edilizia cittadina dal professor Attilio Muggia. L’architettura del quadriportico, discostandosi dal classicismo ottocentesco di impronta vagamente palladiana, assume come modello di riferimento il seicentesco “Colonnade du Louvre” caratterizzato da due ali di portico a colonne accoppiate fiancheggianti un padiglione centrale. Vengono introdotti inoltre due assi di simmetria, perpendicolari tra loro ma di diverso peso. L’asse principale, con direzionalità sud-nord, dai due propilei del varco di accesso a sud ha come punto focale il padiglione centrale del braccio nord e la cupola retrostante che lo sovrasta. Un’impostazione che ricorda, in qualche maniera, l’intervento di inizio Ottocento di Ercole Gasparini nel Chiostro III con la Cappella dei Suffragi a fare da sfondo e punto focale dell’asse nord-sud dell’allora nuovo ingresso alla Certosa. Se da un lato l’adozione delle colonne accoppiate conferisce un certo “ritmo” ed una certa “leggerezza” alla composizione, non c’è dubbio che l’eccessiva ridondanza degli elementi decorativi, specie nella trabeazione e nella balaustra sommitale, appesantisce notevolmente l’immagine complessiva del quadriportico rivelando tutta l’ansia di monumentalità che condizionò il Buriani nell’affrontare un tema progettuale per lui del tutto nuovo. Monumentalità che verrà ancor più accentuata negli anni seguenti con la collocazione dei sacrari dei caduti in luogo delle semplici sepolture originariamente presenti all’interno del campo.

Vicende costruttive | Nell’ottobre del 1897 i lavori procedevano con regolarità: un articolo del Resto del Carlino ci informa infatti che pur essendoci dei timori che i fondi a disposizione non fossero sufficienti per completare l’opera, la parte muraria era pressoché completata e si stava dando inizio alla parte centrale del colonnato in marmo di Campiglia. Alla morte di Buriani nel 1898 i lavori vennero affidati ad Arturo Carpi che già da tempo era stato suo collaboratore e che con ogni probabilità aveva anche partecipato alla stesura del progetto. Alla fine del secolo dunque gran parte delle opere erano ultimate ma si dovrà attendere il 1923 per vedere finalmente completato il chiostro con la realizzazione del braccio est del quadriportico sempre sotto la direzione dei lavori di Arturo Carpi. E’ di quell’anno infatti il documento, conservato presso l’Archivio Storico Comunale, contenente la scrittura privata tra il Comune di Bologna ed il marmista Alberto Montanari “per la provvista ed assistenza alla posa in opera dei marmi occorrenti all’ultimazione dei lavori di costruzione del porticato del Claustro VI di Certosa, braccio di levante”.

Chiostro IX e nuovo Ingresso Monumentale | Negli stessi anni in cui si portava a termine l’esecuzione del Chiostro VI, Enrico Casati e Roberto Cacciari dirigevano i lavori, avviati alcuni anni prima, del Chiostro IX, della relativa galleria e del nuovo ingresso monumentale. Se nella galleria, che sarà l’ultima grande sala sepolcrale costruita in Certosa, sono presenti forse dei vaghi richiami all’architettura bizantina, nelle rimanenti opere risulta difficile rintracciare un univoco riferimento stilistico; ci troviamo di fronte ad un eclettismo ormai al crepuscolo, che potremmo definire “fantasioso”, dove gli elementi formali e decorativi della classicità, e non solo della classicità, vengono liberamente interpretati, assemblati ed accostati in un mix compositivo dagli esiti estetici non sempre felicissimi. Mentre infatti la galleria e l’adiacente chiostro presentano una loro indubbia eleganza, il nuovo ingresso monumentale lascia interdetto l’osservatore per l’affastellamento di elementi architettonici classici assemblati e giustapposti con effetto estetico quasi fumettistico. Il tempio classico di accesso, ad esempio, risulta schiacciato nella morsa di due massicci torrioni costituiti ciascuno dalla sovrapposizione di più oggetti: un sarcofago di base è sormontato da un maschio murario bugnato al di sopra del quale è posizionata un’ara votiva posta ad una altezza da terra del tutto improbabile. E si potrebbe continuare a lungo nella descrizione delle invenzioni stilistiche e delle sgrammaticature compositive e decorative che caratterizzano questi interventi conclusisi nel 1927, ma la particolarità più interessante non è l’aspetto formale bensì quello costruttivo ed in particolare i materiali e le tecniche edilizie impiegati. Per la prima volta in Certosa i rivestimenti e tutto l’apparato decorativo sono realizzati con manufatti in cemento. Nei primi decenni del Novecento ci si era resi conto che le caratteristiche di idraulicità, durabilità e durezza del cemento unitamente alla sua relativa economicità, potevano essere sfruttate non solo per scopi strutturali ma anche per il confezionamento di pietre artificiali. Schiere di mastri cementisti facevano a gara per riprodurre con maniacale perfezionismo le pietre naturali più disparate mediante impasti di inerti colorati, polvere di marmo, pigmenti e cementi di diversa natura secondo ricette e proporzioni spesso gelosamente custodite da ciascun singolo artigiano. I risultati furono spesso veramente sorprendenti tanto che soltanto l’osservatore più esperto e smaliziato ancora oggi riesce a distinguere le pietre naturali da quelle pietre artificiali. Un’ulteriore caratteristica delle pietre artificiali in cemento, una volta terminato il ciclo produttivo in laboratorio o in cantiere, era quella di poter essere rifinite in opera. Grazie alla notevole durezza raggiunta dagli impasti a base di cemento si potevano eseguire a secco finiture quali la scalpellatura, la martellinatura o la bocciardatura conferendo così ai manufatti, in tutto e per tutto, l’aspetto delle pietre naturali. Nell’Archivio Storico Comunale è conservato un certificato di collaudo datato 15 agosto 1922 (sic!) relativo a “lavori in cemento eseguiti dalla Cooperativa Federale Cementisti per l’ampliamento del Cimitero Comunale durante l’anno 1921”, Direttore dei lavori Casati. “I lavori eseguiti si distinguono in getti di cemento armato e getti decorativi fatti in cemento speciale colorato” […] “I getti decorativi sono stati fatti come segue: q.li 4 di cemento comune, q.li 2 di cemento bianco, q.li 8,40 di polvere di marmo e g 5 di materia colorante; il tutto per mc di impasto vagliato e rimescolato a secco e poscia convenientemente bagnato e rimescolato prima di gettarlo e costringerlo nelle apposite forme di gesso le quali sono di parecchie specie: capitelli e fusti di lesene, basi con zoccolo interni, sia interi sia mezzi sia d’angolo; bugne, basi, lesene, fregi decorativi retti e curvi e cimase ornamentali per l’esterno più specialmente per la decorazione del muro di cinta […] l’impasto così ottenuto risulta a presa compiuta di tinta giallognola di bella imitazione, ed allorché sarà lavorato e battuto a martellina imiterà un travertino a tinta forte.” Alla fine degli anni Venti del Novecento, con la conclusione dei lavori del Chiostro IX e del nuovo ingresso monumentale, si chiude la stagione dell’eclettismo storicista ed inizia in Certosa quella dell’architettura moderna: dapprima, negli anni Trenta, con i monumenti ai caduti all'interno del Chiostro VI e poi, attorno alla metà del secolo, con gli interventi nel Campo Ospedali. 

I monumenti ai caduti nel chiostro VI: la prima modernità | All’inizio degli anni Trenta vengono inaugurati, a distanza di un anno uno dall’altro, il monumento ai martiri fascisti, nel 1932, ed il monumento ossario dei caduti della Grande Guerra nel 1933. Il monumento ai martiri fascisti, il cui progetto si deve all’architetto Giulio Ulisse Arata, è il primo esempio di architettura moderna presente in Certosa. Arata, che fino ad allora aveva fatto dell’eclettismo storicista la sua cifra stilistica (riscontrabile anche nei numerosi edifici liberty da lui realizzati in giro per l’Italia), per questa opera elabora un progetto di chiara impronta razionalista. Il progetto, pur concedendo qualcosa al classicismo di regime con l’introduzione delle tozze colonne di ordine dorico poste all’ingresso del sepolcro, si qualifica nel suo complesso per la linearità e la pulizia delle forme e dei volumi. Pur collocandosi sull’asse principale del Chiostro VI e a poca distanza dal suo punto di fuga prospettico, esso, grazie al parziale interramento, non vi si sovrappone visivamente che in piccola parte. Totalmente fuori terra, al di sopra del piano di campagna ma ad una quota abbastanza modesta, è posta invece l’area celebrativa all’aperto. L’asse di percorrenza del chiostro non viene interrotto ma semplicemente abbassato di livello mediante la scalinata centrale con la quale si raggiunge un primo spazio aperto; da qui si accede al sepolcro “passante” per poi risalire di quota con la scalinata posta sul retro. Nello spazio aperto antistante il sepolcro, ingentilito dalle due fontanelle addossate ai muri laterali ed arricchito dalle due sculture di Ercole Drei poste ai lati dell’ingresso, due rampe di scale a destra e a sinistra immettono alla quota del campo e da qui, mediante altre due rampe, si raggiunge l’area delle celebrazioni posta, come detto, nella parte superiore del sepolcro. Un progetto questo che, secondo alcuni autori, lo stesso Arata ritenne tra i suoi più riusciti e che, tutto sommato, risulta abbastanza rispettoso del contesto architettonico in cui si colloca. Ciò è dovuto senza dubbio anche al rivestimento in travertino che con il suo aspetto cromatico e materico ben si accorda con il marmo di Campiglia del chiostro. Va rilevato inoltre che, pur nella simmetria compositiva che lo caratterizza, il monumento presenta, con la varietà degli spazi aperti e chiusi e con le scalinate che quegli spazi collegano, una certa sua dinamicità che spinge il visitatore a percorrerlo e ad attraversarlo per intero, sia longitudinalmente sia dal basso all’alto e viceversa offrendo, oltretutto, anche insoliti punti di osservazione dell’ambiente circostante. L’anno successivo, Il 4 novembre 1933, venne inaugurato il sacrario dei caduti della Grande Guerra la cui architettura manifesta, specie nella parte esterna, i caratteri celebrativi e arcaicizzanti propri del cosiddetto “Stile Novecento”. Se il monumento ai martiri fascisti è solo parzialmente interrato e fruibile in tutte le sue parti, il monumento dei caduti della Grande Guerra è totalmente interrato; all’esterno, di poco al di sopra rispetto alla quota del piano di campagna, emergono unicamente le due grandi piattaforme di pietra sulle quali poggiano le due sculture di Ercole Drei e gli estradossi delle due schiacciate calotte che segnalano la presenza dei sottostanti ipogei circolari. Anche in questo caso il posizionamento è esattamente sull’asse principale del chiostro ma la collocazione sotterranea della struttura fa sì che l’impatto visivo sia ridotto al minimo. L’uso estensivo della pietra d’Istria per le due piattaforme, per le calotte e per tutta la pavimentazione esterna è un chiaro richiamo all’immagine delle pietraie del Carso che furono teatro degli eventi della Grande Guerra. Anche in questo caso, così come per il monumento ai martiri fascisti, gli aspetti cromatici del materiale impiegato non sono in contrasto con il contesto anche se, come è facile constatare, conferiscono a tutto l’insieme quasi un senso di freddo straniamento. Non appena però si scende negli ossari sottostanti si rimane colpiti da un insospettabile brusco cambio di passo estetico. L’indubbia raffinatezza e l’equilibrata ricercatezza della composizione e del disegno dei rivestimenti, unitamente alle cromie dei marmi impiegati, fanno di questi spazi un bell’esempio del gusto Art Déco che caratterizzò gli anni Venti e Trenta del Novecento. 

Il Campo Ospedali: il linguaggio moderno dell’architettura | Secondo il grande storico e critico dell’architettura Bruno Zevi, il linguaggio moderno dell’architettura “nasce da un atto eversivo di azzeramento culturale che induce a rifiutare l’intero bagaglio delle norme e canoni tradizionali, a ricominciare da capo, come se nessun sistema linguistico fosse mai esistito, e dovessimo costruire, per la prima volta nella storia, una casa o una città”. Ed è proprio in questo nuovo linguaggio che si esprimono le architetture del Campo Ospedali realizzate tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. La “stecca”, realizzata nell’immediato Dopoguerra a marcare il lato nord del Campo Ospedali, per l’essenzialità della forma strettamente connessa alla funzione si qualifica come un’architettura squisitamente razionalista e, all’interno della Certosa, rappresenta una novità assoluta sia tipologica che architettonica per quanto riguarda le sepolture collettive non monumentali. Non più grandi sale e cortili porticati di impronta classicista, con marcate simmetrie e gerarchie prospettiche, come era stato per le architetture ottocentesche e dei primi decenni del Novecento, ma un bianco parallelepipedo a sviluppo longitudinale i cui due lati lunghi, dotati della medesima valenza, presentano prospetti ritmati da piccoli corpi di altezza leggermente maggiore ed altrettanto leggermente aggettanti rispetto al filo del prospetto; il dato caratterizzante è la successione di spaziature verticali contenenti i loculi tutti uguali tra loro e dotati ciascuno del medesimo portafiori-portalumini in travertino, come di travertino è il rivestimento dell’intero edificio. Non si tratta a ben vedere di un unico blocco, come ad un primo sguardo potrebbe sembrare, ma di più blocchi articolati e giustapposti, non tutti peraltro della stessa lunghezza. I punti di contatto sono segnati da incisioni curvilinee a tutta altezza, quasi a formare delle piccole esedre semicircolari. Le piante e le alberature che originariamente ingentilivano quelle esedre, e che purtroppo sono state eliminate in occasione dei recenti interventi manutentivi, avevano lo scopo di attenuare l’immagine monolitica che poteva avere l’insieme, così da spezzarne il ritmo ed alludere ad una successione di parti distinte tra loro. In quegli stessi punti di giunzione, oltretutto, la struttura si adatta alla leggera pendenza del terreno mediante piccoli scatti altimetrici. Sono presenti inoltre due portali tripartiti che interrompono la successione delle spaziature verticali contenenti i loculi e permettono il passaggio tra i due fronti della “stecca”. All’interno del vano creato da ciascun portale sono ospitate le sepolture di particolare rilevanza che per la loro singolarità e ricchezza decorativa si distinguono notevolmente da quelle più semplici ed uniformi dei fronti lunghi. Merita infine una notazione non secondaria anche il rapporto tra questo edificio e le preesistenze storiche retrostanti. I portali passanti sono collocati, non a caso, in perfetto asse con le absidi degli edifici ottocenteschi che li fronteggiano ed il loro disegno, discostandosi dalla linearità del fronte opposto, assume un andamento concavo per meglio rapportarsi alla convessità delle absidi. Anche per questi aspetti, per la cura dei dettagli e per l’equilibrio delle proporzioni il progetto denota una non comune qualità architettonica che fa della apparente semplicità il suo carattere distintivo, che non trascura il problema del rapporto con il contesto storico ma che, al tempo stesso, si pone simbolicamente come linea di confine e di passaggio fisico e ideale tra la classicità e la modernità, tra il vecchio e il nuovo. Il disegno della “stecca” del Campo Ospedali verrà ripreso in modo stancamente ripetitivo nel Campo 1948, con l’unico elemento interessante dato dall’inserimento della lunga panchina in travertino che fa da margine al percorso perimetrale posto alla base delle pareti dei loculi. 

Il sacrario dei caduti partigiani: un esempio di architettura brutalista | Bologna è una delle poche città d’Italia nelle quali l’architettura brutalista non abbia generato dei veri e propri mostri, e questo grazie all’opera di una schiera di valenti architetti, bolognesi e non, che tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta del Novecento hanno interpretato questa corrente architettonica sempre in senso misurato e senza eccessi o volgarità. La corrente architettonica del brutalismo, sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra e conclusasi negli anni Ottanta del Novecento, prende il nome dall’espressione francese beton brut (calcestruzzo grezzo o calcestruzzo a vista) e si caratterizza per l’uso massiccio del cemento armato a vista e per la composizione fatta quasi esclusivamente di solidi geometrici semplici, spesso tendenti alla monumentalità. Il monumento ossario ai caduti partigiani, progettato da Piero Bottoni a metà degli anni Cinquanta ed inaugurato nel 1959, è da considerarsi il primo esempio a Bologna di architettura brutalista. Un grande iperboloide iperbolico in cemento armato, che richiama alla mente le torri di raffreddamento delle centrali geotermiche, sovrasta l’ipogeo circolare che contiene i sacelli dei caduti partigiani. Tutta la superficie della struttura è trattata in modo da accentuare la scabrosità del calcestruzzo a vista e metterne in mostra i materiali che compongono l’impasto: sabbia, ghiaia e cemento. Anche il ferro dell’armatura, che originariamente doveva rimanere ben nascosto, occhieggia ora qua e là a causa del degrado degli strati superficiali del calcestruzzo.L’impostazione del monumento, pur nella sua estrema originalità, a ben vedere ed a meno della grande torre, deve comunque qualcosa ai monumenti ai caduti del Chiostro VI. La forma circolare dell’ipogeo ed il disegno dei sacelli richiamano alla mente il monumento ai caduti della Grande Guerra mentre il concetto di sotterraneo “passante” con le scalinate di discesa e risalita richiamano, mutatis mutandis, il monumento di Arata, anche se qui le tre scale non ammettono un’unica direzionalità. La novità assoluta, inutile dirlo, è la grande torre aperta in alto, che dà luce a tutto il sotterraneo. Al centro del sotterraneo la vasca d’acqua circolare con la piccola aiuola che la contorna tende ad attenuare, insieme con i gruppi scultorei di corredo, il senso di oppressione che potrebbe indurre la vista quel cielo lontano lassù sulla cima della torre.E’ stato giustamente fatto notare come, senza nulla togliere alla grande qualità architettonica del monumento, la sua forma richiami alla mente analoghe forme presenti in alcune opere di Le Corbusier e non si può escludere neanche un qualche richiamo ai sottili ed avvolgenti gusci in cemento armato che caratterizzano le architetture di Eduardo Torroja o Felix Candela o ai coevi volumi geometrici delle architetture di Oscar Niemeyer a Brasilia. D’altra parte una delle qualità dei grandi architetti è anche quella di saper reinterpretare le opere del passato o della contemporaneità per esprimerle secondo una propria poetica; e non c’è dubbio che Piero Bottoni sia da considerarsi uno dei maestri dell’architettura italiana. Secondo il già citato Bruno Zevi, infatti, Piero Bottoni, assieme ad uno sparuto drappello di altri architetti della sua generazione protagonisti del movimento moderno, è da annoverarsi tra gli autori di “opere magistrali senza le quali saremmo cancellati dal novero dei paesi artisticamente civili”. Negli anni immediatamente successivi all’inaugurazione del monumento, Bottoni realizzò l’insieme dei blocchi delle cappelle che lo circondano quasi per intero. Si tratta di una struttura, anch’essa in cemento armato a facciavista, che di fatto isola il complesso dal contesto circostante: sia fisicamente sia per gli aspetti materici e cromatici che lo caratterizzano. Quasi per accentuare ancora di più questa volontà di separazione, i prospetti del gruppo delle cappelle esibiscono un apparato decorativo che allude scopertamente ad una sorta di muraglia preistorica fatta di grandi conci poligonali come quelli delle mura megalitiche o ciclopiche poste a difesa di molte antiche città di area mediterranea. Un’opera insomma che nel suo complesso denota come la poetica di Piero Bottoni nel redigere questo progetto sia stata mossa dall’aspirazione ad una bellezza nuova e nello stesso tempo antichissima. Con il monumento ai caduti partigiani si conclude la stagione novecentesca delle opere pubbliche di significativa valenza architettonica all’interno della Certosa. A partire infatti dagli anni Sessanta, se si escludono alcuni pur notevoli episodi privati, il panorama edilizio sarà caratterizzato da interventi di dignitosa funzionalità ma privi dei requisiti che possano farli annoverare tra le opere degne di nota dal punto di vista architettonico.

Leonardo Marinelli

novembre 2024

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