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Il rientro degli ex-prigionieri italiani e i campi di internamento in Emilia-Romagna (1918-1919)

Sociale 1918 - 1919

Schede

Subito dopo la fine della Grande Guerra, 861 ex prigionieri italiani morirono in Emilia Romagna in campi di concentramento allestiti in tutta fretta dai vertici del nostro Esercito. La causa del loro decesso va fatta principalmente risalire alla grave epidemia influenzale (la celebre “spagnola”) che imperversò in quelle settimane con estrema virulenza, e la cui diffusione fu certamente favorita dalle condizioni di promiscuità nelle quali vennero a trovarsi migliaia di uomini indeboliti, malnutriti, scarsamente assistiti e concentrati in luoghi freddi. Intorno a questa vicenda, a seguito della smobilitazione e dell’avvento del fascismo, calò un completo silenzio, rotto solo da poche testimonianze pubblicate in libri di memorie e ricordi.
Gli 861 militari deceduti facevano parte dei circa 270.000 ex prigionieri di guerra italiani rientrati in patria dopo l’armistizio firmato il 3 novembre 1918 a Villa Giusti. Su di loro, specie dopo la rotta di Caporetto, gravava il sospetto della diserzione, alimentato dalle versioni ufficiali ampiamente propagandate dalle autorità.
In Emilia Romagna gli ex prigionieri furono internati in tre grandi campi di concentramento: a Mirandola (Modena), Castelfranco Emilia (allora sotto la giurisdizione di Bologna) e Gossolengo (Piacenza). Tra il novembre 1918 e il gennaio 1919, in un inverno particolarmente rigido, i militari vissero all’interno di edifici pubblici e privati ma anche in alloggi di fortuna come stalle, fienili e tende sulle rive dei fiumi, scarsamente riforniti di vestiario e cibo, in condizioni igieniche totalmente inadeguate e costantemente esposti al pericolo di contrarre infezioni. Per accogliere i soldati, che rimasero per giorni in attesa di inutili interrogatori, furono utilizzate strutture sanitarie preesistenti ma anche nuovi impianti sanitari e logistici, per fare fronte a un numero di rimpatri che, con il passare dei giorni, si fece sempre più difficile da sostenere. Soltanto a seguito delle denunce della stampa, delle pressioni di alcune personalità politiche e delle ripetute lamentele delle autorità locali, la loro sorte venne lentamente migliorando.
L’idea di concentrare questa enorme massa di ex prigionieri (nelle stesse zone delle retrovie che un anno prima avevano ospitato gli sbandati di Caporetto) fu una precisa scelta dei vertici politico-militari italiani. Secondo questi ultimi, infatti, il ritorno a casa dei “morti ambulanti” (come un osservatore li definì) andava ritardato, anche a costo di nuove sofferenze. Essi andavano interrogati al fine di accertare le cause della loro cattura e per sottoporli ad eventuali procedimenti penali, nel caso le modalità della cattura fossero risultate sospette. Per le autorità militari questa necessità divenne prioritaria rispetto all’urgenza di curarli, sfamarli e rivestirli dopo anni di privazioni patite in guerra e nei campi di concentramento austro-tedeschi, anche per il timore della diffusione delle nuove idee bolsceviche con le quali essi potevano essere entrati in contatto Oltralpe. Nel sollecitare un miglioramento delle condizioni morali e materiali dei campi, il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando scrisse infatti che si trattava di “uomini che poi si spargeranno in ogni parte del Paese, e dipende da noi farne apostoli di patriottismo o germi di dissolvimento”.

Fabio Montella