Schede
“Al divertimènt l’é impurtènt cmé al magnèr”: il nonno Antonio ne era profondamente convinto e lo ripeteva soprattutto quando la nonna Elvira si mostrava un po’ severa con le due giovani figlie che chiedevano, secondo i canoni di vita del tempo (erano gli anni ’30), di uscire con le amiche per andare al teatro locale ad assistere alla rappresentazione di un film che allora era “muto”.
Il titolo di ogni film si conosceva in paese perché Fasól, qualche giorno prima, cominciava a girare per le contrade reclamizzandolo con un cartello legato ad un bastone: era una pubblicità fatta in casa ma che aveva una sua indubbia efficacia. Nella famiglia Peli poi si era sempre informati perché Sbulli (che tutti a Medicina, senza conoscerne la derivazione, chiamavano con quel nome, compresa sua moglie, che era la zia Lea) suonava il violino insieme con Bivirina nell’orchestrina che accompagnava il film muto. Sì, Medicina aveva il suo bel teatrino con il palcoscenico, la platea e i palchi. Vi si allestivano addirittura le opere liriche. Le compagnie d’opera, che avevano al loro seguito i cantanti principali, rimanevano in paese per tutta la durata della stagione teatrale e preparavano i cori e i balletti, scegliendo ed addestrando le giovani e i giovani del luogo. Il nonno Augusto, che era uno dei coristi, ci raccontava di alcune ragazze medicinesi dei suoi tempi che danzavano, ad esempio, nella “Traviata, nel Trovatore, e nell’Aida”. “Cum l’ira bèla e brèva Gigiota quènd la baléva int la ‘Danza delle zingarelle’ d’la Traviata!” diceva. Negli ultimi anni della sua vita, quando sentiva la musica della “Lucia di Lammermoor”, che era la sua opera preferita, affermava commosso: “a um dispiés ed murir ènc parché a n pos pió sìntar la Lucia”. L’attività del teatro, infatti, aveva fatto acquisire ai medicinesi di tutti i ceti una non indifferente sensibilità musicale e una fortissima passione per la lirica tanto che i nomi Norma, Eleonora, Carmen, Floria, Tosca, Lucia erano diventati, nel tempo, comuni in paese, come Alfredo, Arturo, Edgardo tra quelli maschili. Nel periodo di Carnevale si organizzava nel teatro il Veglione mascherato, che rappresentava la festa da ballo più importante e divertente del paese per i giovani, e non solo. Nelle case, preoccupandosi scrupolosamente di farlo nella massima segretezza, le donne cucivano con abile maestria gli abiti (con stoffa anche riciclata soprattutto se le finanze domestiche lasciavano a desiderare) per le maschere in gruppo o singole; incominciavano anche un mese o due prima della data stabilita per il ballo.
Quella volta però il diavolo volle metterci lo zampino e bastò una chiamata a voce alta “Mélia!” e una risposta pronta e sicura “Ooo, chi é ch’ am’ ciama?”, per fare crollare in un attimo, oltre al lavoro di giorni e giorni, tutte le dolci fantasie dell’attesa, piene di ansia e di inconfessata speranza – perché no – di incontrare la notte del ballo l’occasione buona, quella giusta, diciamo “il principe azzurro”. L’aveva fatta grossa la povera Mélia e anche mio zio Ettore, allora adolescente, che, essendo riuscito in casa a scoprire il segreto della confezione degli abiti per la mascherata, aveva organizzato con alcuni amici il tranello all’entrata del teatro. Erano in dieci a comporre il gruppo: figlie e madri, vestite da crocerossine, tutte bardate fin nei minimi particolari con copricapo, calze, guanti e maschera completa sul viso perché non si fosse riconosciute da nessuno e si riuscisse così a mantenere per tutta la notte quell’anonimato che avrebbe permesso ad ognuna di diventare un’altra persona e di far “morire” di curiosità i poveri cavalieri che, scelti per quella notte dalle donne, non riuscivano a rendersi conto di chi avevano davanti e con chi stavano parlando. Erano i continui equivoci, che duravano fino al mattino, soprattutto se le maschere erano abili e intelligenti, a costruire l’indiscusso fascino del Veglione mascherato. E dire che la Mélia, la cui caratteristica fisica principale erano le gambe molto sottili, aveva indossato per non essere riconosciuta quattro paia di calze, di cui due “èd lèna da pastàur”. Dopo il primo momento di grande smarrimento, il gruppo, ormai non più in incognito, si presentò ugualmente all’entrata ufficiale dove ogni componente, come d’obbligo, fece registrare le proprie generalità. Ma quante illusioni erano miseramente crollate! Non tutti a Medicina avevano la possibilità di prepararsi personalmente un abito “un pó un pó” e tanto meno di prenderlo a noleggio dal “Balcone”, che per tutto il periodo di Carnevale appendeva, come pubblicità, alla finestra del suo appartamento sulla piazza principale un “domino” bianco e nero, da Pierrot. Si travestivano allora “alla boia d’un giuda” e, alla registrazione per l’entrata al veglione, venivano indicati come “brasùla”: erano di solito di “grén mación”, simpaticissimi, capaci di un umorismo intelligente. Momenti di grande divertimento erano i balli della quadriglia che veniva “comandata” ad alta voce da qualche giovane medicinese che, anche se privo di cultura particolare, sapeva pronunciare in francese perfetto le frasi d’obbligo. Non accadeva così invece per il “Pavillon doré”, che era un piccolo ritrovo, organizzato spontaneamente da un gruppo di giovani con lo scopo di fare due salti e stare un po’ insieme alle ragazze nei giorni di festa e che è sempre stato pronunciato all’italiana. I costumi preparati per il Veglione venivano poi indossati anche nella sfilata del Corso mascherato per le vie del paese. Erano belli, ricchi di inventiva e di fantasia i carri mascherati di Medicina e simpaticissimi gli interpreti, che, per la realizzazione, si erano impegnati per mesi interi, la sera dopo il faticoso lavoro della giornata, perché valeva la pena potere, anche solo per un giorno, uscire da se stessi e, in allegra compagnia, tra l’ammirazione generale, assumere identità non più proprie provando emozioni fuori della quotidianità. Durante l’inverno venivano organizzate feste da ballo private, in rigoroso abito da sera, nel salone dell’allora Casa del Fascio. Le ragazze che venivano invitate a parteciparvi si consideravano privilegiate ma dovevano farsi confezionare un abito da sera di eleganza raffinata (c’era chi risparmiava tutto l’anno per questo scopo) dalle sarte più apprezzate di Medicina come, per esempio, le sorelle “Archimedi” di cui “Seconda” era la più conosciuta. “Chissè cum la s’vtirè st’an la ‘Centomila’”, ma nessuno veniva a saperlo prima della sera del ballo perché tutte, sarte e lavoranti, avevano l’obbligo del segreto più ferreo. “Centomila e forse più” era una ragazza così soprannominata perché poteva contare su una dote del valore di più di centomila lire, che allora, negli anni trenta, era tutto dire.
Nelle sere d’estate, all’aperto nella pista rotonda, che tuttora s’intravede, si ballava con l’orchestra, senza pretese di eleganza particolare. Vi si partecipava liberamente. Accadde una volta che una coppia, ballando un valzer con eccessivo trasporto, cadesse a terra in mezzo a tutti gli altri danzatori, e il cavaliere, anziché aiutare la sua dama, gentilmente, a rialzarsi, se ne andasse immediatamente verso l’uscita imprecando ad alta voce: “A ja géva mé: sta aténti, brisa pighér la testa trop indria e in zè e in lè, ch’a ciapèn l’ònda e a caschèn tott e du. Mo li l’è vru fèr la rumèntica a tott i cóst: adès, piz par lia!”. Dovettero aiutarla gli altri, la poverina, a rimettersi in piedi e a riprendersi anche da un certo senso di vergogna. Ogni anno arrivava in paese il “Carro di Tespi”, che era un teatro viaggiante, costruito in legno, smontabile, in cui venivano rappresentati “di dramón tragic” che piacevano molto, soprattutto perché commuovevano fino alle lacrime. “Il Padrone delle ferriere”, “Le due orfanelle”, “La cieca di Sorrento”, “La muta di Portici”, “La Pia de’ Tolomei”,”Il fornaretto di Venezia” erano i più seguiti, perciò ogni anno venivano ripetuti anche per più sere di seguito “cun di pinón ch’an’jè dobbi”. Alla fine della recita veniva rappresentata “la farsa” che induceva gli spettatori a passare immediatamente dal pianto al riso. Al momento dell’uscita non era raro udire qualcuno che, colto dal desiderio di mitigare un po’ il subbuglio di stati d’animo che ognuno aveva dentro di sé, diceva ad alta voce: “Ragazù, zighèggna o ridèggna? Al srè méi ch’a ridèggna, che a zighér a sèn sèmpar a tèmp. Andèn mò a lèt che dmatina l’é a qué ch’l’ariva drétta cmé un fus! Bóna – bóna”. È così che si divertivano i nostri vecchi, cercando di alleviare con momenti di sereno svago le dure fatiche quotidiane perché allora “l’ira dura l’arènga” e bisognava darsi molto da fare se si voleva provare di sbarcare il lunario “parché la chè l’a n fè brisa fasù” diceva spesso mio padre.
Giuliana Grandi
Testo tratto da "Il divertimento (è importante come mangiare)" in "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 6, dicembre 2008.