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Bologna e il vero

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Per le due o tre generazioni di pittori bolognesi, che questa mostra vuole riconsiderare storicamente, e per i critici che ne accompagnarono l'affermazione, il 'vero' prese un valore altrettanto indiscriminato e universale di quel che ebbe, per le generazioni precedenti, il 'bello'. 

Poté così coagulare intenti, aspirazioni, anche emozioni in sè molto diverse, se non apertamente contrastanti: e attraversare un dibattito istituzionale, che se a Bologna, città di provincia, si immeschinì spesso in povere e piccole polemiche, nel suo complesso espresse nondimeno lo stesso disagio verso gli splendori del passato e la stessa, irrisolta aspirazione alla modernità, che in Italia furono di tutto il secolo. Le parole con cui in accademia il segretario Cesare Masini evocò, nell'ottobre del '52, un lontano soggiorno bolognese del russo Karl Brjullov (1834), morto in quello stesso anno presso Roma, tradiscono l'emozione e anche i disappunti di un uomo incalzato, a quella data, da nuovi e più esigenti assertori del vero: "Il vero, il vero, altamente proclamava [Brjullov] ai giovani alunni; il vero di natura ma nel suo bello, nel suo perfetto che è il più difficile; e chi nol sa vedere o nol sente non osi tentare... Chi non ha fuoco nell'anima lascierà morte le tele. Brulloff le animava non troppo né poco, corretto a tempo, con osservazione scrupolosa del vero, quell'esagerato che lo tradiva nell'età trasportata dall'immaginazione. La natura è quieta e tranquilla in tutte le sue gradazioni; una misura ha in tutto. Codesta misura relativa è ciò che costituisce il bello e l'armonioso. Ma chi studia continuamente natura è l'amato dall'universale, è il professore del vero" 

Al trasporto iniziale subentra un ideale, in fondo, di medietà e decoro accademico, che il Masini difese con rigore e intransigenza, anche in anni ben più inoltrati e per lui più difficili: e non senza l'animosità che gli veniva da una importante esperienza iniziale di pittore. Di quella stagione ormai trascorsa Masini pare vedere come un condensato nell'esempio inarrivabile di Brjullov, e trarne ancora un implicito ammonimento contro le rinnovate seduzioni de l'art pour l'art: "entusiasta Brulloff a tutti che l'arte all'arte faceano sommessa, dicea perduto il senno e la fama: ciò che è detto volgarmente convenzionale". La posizione di Brjullov appare per molti versi sfuggente, irriducibile alla polarità classico-romantico, che da tempo catalizzava il dibattito artistico milanese; ma non meno distante dai nazareni e dai puristi, che a Roma riassunsero le insoddisfazioni per la vecchia cultura neoclassica. A Bologna, dove romantici e puristi furono sempre respinti, quando non esplicitamente deprecati dalle cattedre accademiche, tale posizione potè dare il senso di un rinnovamento sostanziale, e insieme leggittimare ancora quella idea di continuità tra una generazione e l'altra, che in una città di più modesti orizzonti, costretta a vincoli istituzionali molto severi, e, per allora, del tutto insopprimibili, sembrava inevitabile confermare, ogni volta che si facesse un passo avanti. Per quanti furono impressionati dall'esempio e dallo stile morale di Brjullov il 'convezionale' non poteva che essere quello stento linguaggio neosettecentesco che in città riaffiorava nel clima stagnate della Restaurazione, dopo una più impegnata, ma effimera stagione neoclassica: non senza tradire persino incredibili nostalgie 'clementine' nei ricorrenti lavori di cavalletto o d'interno di Napoleone Angiolini. I ben diversi propositi di Brjullov furono insuperabilmente evocati da Nikolaj Gogol in uno dei racconti di Pietroburgo, Il ritratto: "in virtù d'un potente istinto interiore egli sentiva la presenza d'un'idea in ogni oggetto; intese da sè il vero senso della frase pittura storica; capì da sè perché una semplice testa, un semplice ritratto di Raffaello, di Leonardo Da Vinci, di Tiziano o del Correggio, si può chiamare pittura storica, mentre un enorme quadro di soggetto storico sarà sempre un tableau de genre, malgrado tutte le pretensioni del pittore alla pittura storica". E' possibile che anche il cordiale successo che poco dopo accompagnò l'affermazione di Masini a Bologna e poi a Roma stessa si alimentasse di motivazioni analoghe: o almeno parrebbe suggerire sottintesi polemici non molto diversi. Questo Dario morente, col suo palpito d'ethos, dà già, al 1837, un segnale importante di svolta sulla linea seguita da Bezzuoli a Firenze, dove infatti Masini era andato a prender lumi qualche tempo prima: ma con una inclinazione patetica assai più esplicita, malgrado l'impianto sempre controllatissimo. Manca per ora l'opportunità di verificare su testi di impegno autentico il ruolo del più anziano Vincenzo Rasori, in questi stessi anni molto attivo sulla scena bolognese, e ben fornito di ottime credenziali della stampa.

Meglio controllabile è la posizione di due giovani che frequentarono il suo studio, prima di trasferirsi anch'essi, come fece più stabilmente Rasori stesso, a Firenze: l'uno, Andrea Besteghi, presso il Bezzuoli; l'altro, di lui un po' più anziano, Gaetano Serrazanetti, è, come si vedrà, alquanto più mobile e inquieto, nello studio ben più appartato del Farini: di dove passerà non molto dopo a Venezia e poi a Roma. Il dipinto con cui ottenne il premio grande nel '38, questo notevole Ezzelino da Romano prigioniero, riflette una tale pendolarità, sfoderando inediti squarci neoveneziani su una drammaturgia convolta e fieramente dimostrativa, come era da tempo nel carattere della più aggiornata pittura di storia fiorentina. Anche più esplicitamente ortodossa risulterà nel 1844 la prudente e un po' impacciata sortita del Besteghi con un Pandolfo Collenuccioche apprende la sentenza di morte: che è nondimeno opera impegnata, seria, con un 'ictus' anzi di concentrazione sospettosa che ne fa per più versi esempio anch'esso notevole di psicologia storica, sui modelli ben noti di un fiorentino da lui molto ammirato, Giulio Piatti. E' possibile che a questa data la nozione del vero, quando non fosse stata rimossa, ai più apparisse appiattita nella banalità di un riconsolidato 'tran-tran' accademico: provocando poi, come si vedrà, la rinnovata protesta dei giovani. Lo 'standard' è bene esemplificato dai ritratti del professore di pittura, Clemente Alberi, colto, riflessivo, a quanto pare precocemente immalinconito da una convivenza alquanto contrastata coi colleghi e dalle ricorrenti nostalgie per l'ambiente fiorentino, dove contava amicizie e qualche ammiratore importante. Di li gli viene quel tanto di 'ingrisme' che i ritratti più antichi dichiarano apertamente, con una squisitezza concentrata e compita, che neppure la concorrenza del 'medium' fotografico e la conseguente maggiore autorità d'immagine delle prove più tarde annulleranno in tutto.

Il forte Serrazanetti ha un approccio molto più diretto e disinibito nel bel manipolo di ritratti, dipinti senza reticenze o troppe timidezze, che gli ha riconosciuto Elisabetta Farioli. Questo è carattere per Bologna alquanto insolito se anche Antonio Muzzi, figura di rilievo e qualche impegno, si esprime con un linguaggio ben più sfumato negli anni in cui tocca una propria autonomia espressiva: che furon quelli seguiti a un soggiorno a Pietroburgo tra il 1846 e il '48. Più che da Fiodor Bruni, che lo aveva chiamato in Russia, è dalla scuola di Venetsianov, che Muzzi sembrava derivare quel colorito squillante o solo affocato, e quell'approccio sostanzialmente intimista, proposto prima in una versione idillica, benché di avvincente presa diretta, e poi più spiegatamente 'Biedermeier'.

La storia dei rapporti tra Bologna e la Russia, variamente intrecciata di scambi e reciproche sollecitazioni, molto più di quanto sia ora possibile precisare, segna qui un punto di convergenza non soltanto ideale o propositiva: che è anch'esso caso, per quanto ci è noto, in tutto insolito nel panorama italiano. Dove la nozione del vero non sembra appannarsi, né perdere in forza propulsiva è nella pittura di paesaggio, a Bologna coltivata assiduamente, e non senza significativi riconoscimenti 'extramoenia', ma sempre, o quasi, ai margini dell'accademia. Una cattedra era stata istituita nel '16, ma morto cinque anni dopo Luigi Busatti che la teneva, non si ebbe la volontà, né poi si trovò il modo di provvedere alla sostituzione; sicché la vicenda della pittura di paese decorre parallela a quella di storia e di ritratto, ma risulta assai meno costretta ai vincoli di un dibattito, che a Bologna ebbe condizionamenti d'ogni genere, istituzionali, morali, politici. Non è un caso che, al suo avvio, si collocasse su una duplice cerniera, a un non facile raccordo con la pittura di decorazione e con quella scenografica, conservando poi a lungo una impronta monumentale, anche negli esiti minori e minimi, o quell'eccesso di determinazione fantastica, che ne fanno il carattere specifico e la distinguono dalle diverse esperienze lombarde, piemontesi o romane. E' inevitabile prendere l'avvio da Rodolfo Fantuzzi che fu, come il suo maestro Vincenzo Martinelli, decoratore e internista. Nella 'stanza a paese' , pensata non più come luogo di illusioni o castigate piacevolezze arcadiche, ma come fulcro di squisite rimembranze, di raffinate distillazioni intellettuali, di nobili empiti eroici, ma già contenuti o repressi, trova la sua più specifica determinazione ideologica: nonché stilistica e morale. Prevale un sentimento del vero rarefatto e intellettualizzato, come in questi due grandi e certo molto inoltrati teleri che rievocano, con una punta di distaccato eroismo, e già qualche trasalimento romantico, la campagna romana, dal Fantuzzi frequentata durante un suo documentato soggiorno nella capitale. Soltanto il piemontese Bagetti si espresse in questi anni con altrettanta o maggiore autorità di linguaggio, e con una disposizione mentale ugualmente irriducibile allo 'style David', come alle incipienti banalizzazioni del paesaggio da camera' romantico.

Anche Giacomo Savini, che con Fantuzzi condivise l'apprendistato presso il Martinelli, in una posizione verosimilmente assai più defilata della sua, non si allontana che di poco dalle proprie origini in questi già tardi appunti visivi. Sarà la remora di un'arcadia singolarmente protratta, benché normalizzata in un impianto pressoché vedutistico, a dare loro un senso di pungente inattualità. E nondimeno la mobilità mentale con cui Savini percorre la campagna e l'Appennino e ne restituisce gli aspetti più appartati e dimessi, con una misura morale spoglia, ugualmente lontana da ipoteche ideologiche o declamazioni letterarie, basta ad assicurargli l'attenzione durevole delle generazioni seguenti. Non sfugge peraltro la convergenza con le posizioni espresse in Roma da quella che D'Azeglio evocherà come la 'generazione del '14'; né l'accenno più esplicito di pittoresco che si legge nella sola 'stanza a paese' fin qui riconoscibile all'artista (in palazzo Davia Garagnani, 1834), fra le molte a cui lavorò. Più complesso e difficile è il caso di Ottavio Campedelli, che s'impone a partire dal 1818 con paesaggi storici di così stringente rigore morale, mutuati esplicitamente dagli esempi di Poussin e Dughet, da segnare una rottura in ogni senso memorabile con la perdurante arcadia martinelliana, riformata o no. Per Bologna restano eccezionali assunti tanto espliciti in favore dello stile 'héroïque', di cui in questi stessi anni il trattato di Valenciennes vanterà il primato su quello 'champêtre'. Ad una visione di così determinato rigore etico soccorre una singolarissima duttilità visiva, una disposizione stilistica alimentata da attenti controlli sul vero. Lo notò con precisione, al suo esordio milanese, la Biblioteca Italiana: "E' questo un pittore che sembra essersi fatto sulle opere di Gaspare Poussin, e di tant'altri che videro la natura nel suo aspetto più imponente; le sue arie sono brillantissime e ti pare di respirarle, le sue nubi leggiere, in quanto alla luce distingui ne' suoi quadri le diverse ore del giorno; per l'opposto le tinte de' suoi verdi e de' suoi terreni non disturbano con colori vivacissimi, ma contrappongonsi sì bene alla luce dell'aria che le trovi vere e affatto armoniche; la gradazione della luce e dell'aria interposta tra gli oggetti le stacca e ne indica le distanze: il suo frondeggiare facile, vero, variato piace, come l'artificio ch'egli adopera per comporre i gruppi de' suoi alberi: se vi scorgi animali o macchiette, non sapresti né meglio situarle, né dar loro una tinta diversa di quella di cui si servi il pittore: in una parola il Campedelli è artista nel suo genere che può competere con qualunque altro di fama la più distinta" . (Biblioteca Italiana" ', LXXI, lug. ag. sett. 1833, pp. 280-281). Anche più caldi saranno nel '43 gli elogi di un'importante rivista inglese di avanguardia, The Art-Union: "How beautiful is the vapour raised by the power of the sun from that waterfall, which produces an undulating atmosphere over the Peneus. The aërial and linear perspective are perfect, from valley to hill, and to high mountain; and that sun which, hidden behind the stoney Ossa, gilds the clouds, and then, spreading itself' on the foreground, illuminates the figures of two Grecian travellers, is the acme of poetry, and the soul of the picture. The artist has accomplished a work which, in the grandiose style, will not easily find a rival in modern times". (""The Art-Union", dicem- bre 1843, p. 35). A tale data il Campedelli, compiuta una drastica svolta, pare già costeggiare lo 'style champêtre', di cui questo paesaggio con casolare costituisce, al 1826, un primissimo esempio: ed è caso memorabile per l'Italia di precoce reazione al successo parigino di Constable, due anni prima. Certo è che nella tardissima 'stanza a paese' di villa San Martino (1858), dimesso ogni proposito di persuasione eroica, Campedelli tocca il traguardo di un naturalismo pacato e senza enfasi, con il quale sembra intuire qualcosa della poetica di Barbizon: aprendo con ciò stesso alla generazione proprio allora emergente.

Anche più problematica è la caratterizzazione di queste 'quattro parti del mondo', con cui Antonio Basoli si presentò all'esposizione accademica del 1842 (ma l'esecuzione è di quattro anni precedente), sorprendendo ancora il già menzionato recensore di The Art-Union: "The effects of light, whether of the sun, the moon, or artificial, are also magnificent. ...Honour and long life to Basoli, a real poet in painting!" Stupisce l'accesso di fantasia combinatoria, che al Basoli viene da una personalissima rilettura dell'inglese John Martin, come di seguito chiarisce irrefutabilmente Busmanti; e che qui, più che nell'ammirevole serie litografica dell'Alfabeto pittorico (1839), si colora di singolari inquietudini, di percepibili equivalenze fra un passato remoto e il formicolio egualmente lontano e seducente della 'nuova Babilonia' capitalistica: la "sformata vaghezza delle cose straniere", come dirà subito dopo, in un discorso accademico dai forti accenti anticapitalisti, il canonico e poeta Gaetano Golfieri (Atti Acc., 1843, p. 20). E' alle risorse della sua educazione vedutistica, di cui aveva dato prova in tanti garbatissimi esempi 'rustici' o urbani, che il Basoli ricorre ancora, ma abbassando il punto di vista e aprendo su inedite fughe a volo di uccello, sicché alla linea Canaletto-Bellotto, cui aveva deferito fin lì, si sostituiscono più capziose combinazioni prospettiche, riprese da lontani esempi nordici o anche bolognesi, sul genere del Mastelletta.

In quest'ottica appariranno più ortodosse le vedute che da Parigi inviava un altro scenografo bolognese di talento, Domenico Ferri, per un trentennio stabilmente ingaggiato al Théâtre-italien. Poté fargli da mentore in Parigi stessa Giuseppe Canella, poi passato definitivamente a Milano, non senza però che il Ferri continuasse a prestare molta attenzione a quanto di nuovo andava emergendo, proprio in quel giro di anni, nel paesaggio francese. Permaneva un'ipoteca scenografica, un 'presto' pieno di fuoco, che a Bologna impressionò e meravigliò; ma diede luogo anche a non poche perplesstà: "A cui piaccia l'effetto del colore gradiranno codeste tele; a cui la natura ed il vero, sembreranno un pochino esagerate", commentò sulle prime la Gazzetta di Bologna (23 maggio 1835). Di una successiva Veduta di Caen lo stesso giornale dirà (9 settembre 1837) che "te ne rimani tanto estatico, meravigliato, che confondi la squisitezza dell'arte col vero della natura". Il Ferri appariva al di qua di quella soglia del vero, che resisteva al centro del dibattito critico, anche quando l'ottica si spostasse dalla mozione degli affetti e dalle dimostrazioni della pittura storica agli 'exempla' non meno ammonitori di quella prospettica e scenografica: gli stessi che accamperà, ma già con un più ombroso e inquieto sentimento del colore locale, il nuovo professore di prospettiva, Francesco Cocchi, in questo più tardo Piazzale gotico.

E' ancora il vero, ma un vero sedimentato di memorie storiche e pregno di valori morali, "quello che la mente consola ed innalza", a emozionare e coinvolgere fin dalle prime uscite bolognesi del modenese Adeodato Malatesta (dal 1842 in avanti). Ma più che le tangenze puriste, pure da lui affermate in questi anni con inedita risolutezza di modi, è la formidabile capacità riepilogativa nei riguardi dell'intera tradizione pittorica italiana, ad assicurargli l'adesione convinta dei giovani, come assai bene argomenta di seguito Graziella Martinelli. Sfuggiranno forse le qualità più nobili, che nella ritrattistica, di presa lenta ma forte ed emozionata, sui modelli dei grandi viennesi Waldmüller e Winterhalter, toccano punte di vera grandezza; ma non sfugge a Bologna la forza propulsiva di un eclettismo finalmente informato e motivato, molto complesso nelle tangenze e negli esiti. Per seguirne l'insegnamento si trasferiranno a Modena, nell'estate del 1844, alcuni giovani promettenti, Giulio Cesare Ferrari, Pietro Montebugnoli, Alessandro Guardassoni.

L'ultimo, che dei tre era il più inquieto e dotato, si conquistò lentamente un ruolo di protagonista, mantenendo nondimeno una posizione molto sfumata. Nel '55 la Tumulazione di Cristo per la chiesa della Trinità, composta con passo sicuro e qualche grandezza di respiro sui modelli di Tiziano, Raffaello, Guido, si impone come l'esito maggiore dell'eclettismo bolognese. Seguì un periodo di viaggi di studio a Roma, Londra, Parigi, di cui si dovrà ricostruire meglio la 'sequenza e le interne motivazioni, tanto più che di li pare decorrere quella svolta antiaccademica, che il Guardassoni visse con qualche drammaticità, prima di arroccarsi su una incerta linea di frontiera, caratterizzata da uno sprezzo dichiarato per il finito accademico. "Di quell'ardire, sprezzatura, strapazzatura" si rilevò molto tempestivamente l'importanza (G. Bellentani, 1858, p. 18). All'artista poté venire dagli esempi parigini di Thomas Couture, particolarmente dagli affreschi per la chiesa di Saint Eustache, che si videro terminati nell'ottobre del '56, dopo una gestazione durata cinque anni. A sollecitare una convergenza spontanea, che per Guardassoni ebbe nel tempo effetti così imprevedibili e risolutivi, fu la comune attrazione per la "rapida, larga pennellata di Guido Reni' (ancora Gogol, a proposito di Brjullov). In quella forma, e con quella specifica predilezione per lo sfinimento materico e tonale ("il ne manque qu'un peu de fini", si diceva di Couture già dal '44), fu quasi una scoperta parigina, molto al di là dell'ossequio scolastico che Guardassoni tributò a Guido per tempo, fin dal suo giovanile Calvart che si rallegra con Guido della sua Assunta (1846), seguito da anche più corrivi Guido Reni che ritrae Beatrice Cenci (Antonio Rosaspina, 1856) e Guido Reni nel suo studio di Luigi Masetti; e per Couture costituirono prova di notevole indipendenza mentale, se solo un decennio prima Michelet aveva additato un esempio di decadenza religiosa nell'opera di Reni (J. Michelet, Du prêtre, de la femme, de la famille, Paris 1845, p. 32). Sarà Guido l'ispiratore palese di quella pittura a trama larga, spesso affaticata o esplicitamente trasandata, ma a suo modo libera e autenticamente malinconica, con cui Guardassoni pose fine alla sua difficile carriera, nelle forme di un clericalismo chiuso e un po' ostico, di appartato decoratore chiesastico. Un suo sostenitore, il Roncagli, ne rivendicava il valore contro i cultori dell'art pour l'art, di un 'vero' questa volta eccessivo, e sprovvisto di intime risorse morali.

L'implicito programma, cui s'ispirò la Società protettrice, fin da quando, nel '54, divenne concretamente operativa, mirava a rianimare un mercato artistico esausto, favorendo indirettamente quella produzione minore, paesistica o di genere, cui si indirizzeranno stabilmente le preferenze della borghesia: senza trascurare però esigenze di verità e decoro. Era questo anche il programma più apertamente dichiarato dal maggiore rappresentante dell'opposizione al regime, Marco Minghetti, quando, in quello stesso 1854, prese la parola per la distribuzione dei premi in accademia: "la filosofia ci dimostra che il vero, il buono, l'utile ed il bello lungi dal repugnare tra loro scambievolmente concordano e si giovano" . Affermazioni di tal genere, in sè non nuove, né estranee alle esigenze di medietà accademica, erano sostenute da considerazioni sociologiche di inconsueta finezza: ed anche — come questa che segue — di inedita risolutezza, almeno per Bologna. "Pertanto sarò io stimato troppo austero riprenditore del nostro secolo, se affermerò che le opinioni, i costumi, le abitudini e la educazione odierna sono acconce non già a suscitare gl'ingegni da natura inclinati alle arti, ma piuttosto a tarpar loro le ali?".

Uno sforzo reale di svecchiamento si compì all'indomani delle annessioni, riformando radicalmente la vecchia accademia; non senza però che le speranze di rinnovamento dell'istituto andassero deluse quasi subito. Dei professori chiamati dall'esterno, l'uno, il lombardo Carlo Arienti, costretto a un faticoso compito di direzione, non prenderà mai spicco autentico; l'altro, Antonio Puccinelli, che già emergeva accanto ai riformati toscani di maggior valore, come Ciseri e Pollastrini, non pare curarsi molto di riunire intorno a sè le nuove forze. Della sua vicenda bolognese sappiamo, fin qui, alquanto poco; ma basterà questo ignoto Ritratto di Carlo Alberto, ordinatogli dal sindaco Pizzardi, con altre opere analoghe del Guardassoni, del Ferrari, di Busi, a segnalare l'inconsueta determinazione con cui Puccinelli può affrontare anche un tema esplicitamente celebrativo: ma senza rinunciare a nulla della sua pittura sottile, e a quel civilissimo riserbo nell'analisi psicologica che è elemento distintivo anche dei suoi più facili ritratti a presa diretta. Può darsi che un tale contegno non incontrasse in tutto il favore dei giovani, tanto più che si erano fatte intanto molto più facili le comunicazioni con Firenze, segnatamente col gruppo dei macchiaioli, che a Bologna ebbe presto buona stampa e qualche dichiarato fiancheggiatore; mentre il Puccinelli tenne sempre a rimarcare la propria indipendenza.

Chi per temperamento e cultura sembra essergli più vicino, in questi primi tempi del suo soggiorno bolognese, è Alfonso Savini, ancora giovanissimo, ma presto capace di pensieri già alti e severi, tra macchia e purismo, come questo Io mi sedeva in parte del 1863. Spiace che sia così poco progredita la conoscenza dello squisitissimo artista, al quale si vorrà nondimeno assegnare un ruolo centrale in quegli anni di scambi fitti e replicati con la Toscana. Anche più sfuggente è la posizione del coetaneo Orfeo Orfei, che pratica con inquietante indifferenza, e non senza reiterate corrività, ogni genere, accademico e non; ma nel ritratto si distinguerà per l'approccio pacato e insolitamente confidenziale, al limite di una meditata 'naïveté'. Assai meglio definita è la posizione di Luigi Busi, l'esponente più in vista della nuova pittura bolognese per tutto ed oltre il corso del settimo decennio, con larghezza inusitata di consensi della stampa, anche 'extra moenia'. Ad assicurargli fortuna è la facilità dell'innesto tra il vero, come si andava enunciando nelle opere dei macchiaioli, e una esigenza intimamente accademica di gradevolezza e scioltezza, che gli sarà poi rimproverata da Francesco Netti in un limpido giudizio riassuntivo (1877): "egli profonde la grazia a piene mani nella sua pittura. Riesce a piacere a tutti, ma non riesce a contentar tutti. Esser eleganti è un gran dono, in un pittore specialmente, ma non eccedere nel grazioso è un dono maggiore" (F. Netti, Scritti critici, Roma 1980, p. 164). Questa notevole Commendatizia ripercorre nel 1874 temi leghiani, sino a sfiorare il plagio di un soggetto fortunato e dal Lega replicato più volte, Le bambine che fanno le signore; ma con una ostinazione per il décor e il carattere ambientale che dal Lega, sempre impegnato moralmente, anche negli esiti di maggiore facilità comunicativa, diverge intimamente.

Dove invece, per merito principale di Luigi Bertelli, la ricerca del vero prende un risalto insopprimibile, e poi sempre più esclusivo, è nella pittura di paese. Nel corso degli anni '50 Bologna ripropone i modelli di Salvator Rosa e Dughet in una versione concitata, ma di sostanziale gradimento accademico, richiamando variamente il romanticismo moderato di D'Azeglio e il naturalismo riformato dello svizzero Calame: con più autorevolezza di tutti nell'opera del notevole Ferdinando Fontana. Sul '60 Bertelli pare averne già preso le distanze, individuando semmai punti di convergenza non occasionali col vecchio e sempre attivo Campedelli: e motivi di ritrovata solidarietà con l'anche più remoto Giacomo Savini. In una ricerca, che risulterà poi tra le più complesse e rischiose dell'Ottocento bolognese, all'inizio poté fargli buona compagnia, se addirittura non lo precedette brevemente, il coetaneo Pietro Pioppi, passato poi definitivamente alla fotografia. Certo è che in questa forte Veduta di Dozza, dipinta intorno al 1863, Poppi affronta già con singolare sicurezza di sè un confronto serrato coi macchiaioli, particolarmente col gruppo di Signorini, Banti e Cabianca: non senza affermare la personale e un po' ombrosa attitudine al contrasto tonale, all'asciutta, ma inquieta memoria dei luoghi. E' lo stesso giro cui si indirizzarono le preferenze di Bertelli, a questa data manifestate forse con maggiore timidezza complessiva. E' vero bensì che anche là dove l'esito fosse più incerto, Bertelli ha già una concentrazione, e insieme una complessità di moventi, che non trova in questi anni paragone a Bologna: più insistentemente emergerà, col progressivo incupirsi o appannarsi della visione, il ruolo di Antonio Fontanesi, sfortunato espositore alla mostra bolognese del 1867.

Sugli esempi di Fontanesi, Bertelli matura quella oscura implicazione simbolica, che già poco dopo i felicissimi esordi si avverte nelle sue campagne senza dramma esplicito, ma anche senza idillio. Ove si aggiungano le tangenze col Lega, di cui Bertelli pare talvolta ricalcare l'interna misura morale, si avrà il quadro di un artista colto e ricettivo, ma senza compromessi: né, col tempo, timidezze o eccessive deferenze. Il viaggio a Parigi per l'esposizione del '67 ha conseguenze imprevedibili, benché maturate molto lentamente. La sua pittura porterà a lungo, reagendo in modo personalissimo al paesaggio padano e ai tempi lunghi delle estati appenniniche, l'impronta di Courbet e dei paesisti di Barbizon: e i suoi dipinti prenderanno quel respiro di quasi epica modernità, che fu per Bologna il segnale più esplicito di una svolta consumata interamente.

Nei paesi che Coriolano Vighi cominciò a rendere noti poco dopo il '70 emerge invece un temperamento lirico ed introspettivo, da riuscire un involontario contraltare alla più solida pittura di Bertelli. La vena schiettamente malinconica lo porta a rielaborare le categorie del vero in una versione intimista e spesso insistentemente edulcorata, come in questa notevolissima Passeggiata del 1881, dolce e immalinconita, al limite tra evocazione e presa diretta. Non sfuggirà la sostanziale convergenza con le posizioni espresse nella pittura di figura da Raffaele Faccioli, che precede il Vighi di qualche anno con propositi anche più esplicitamente letterari: tanto da provocare di lì a poco (1873) la secca messa a punto di Panzacchi, con l'intento di distinguere "il vero dal manierato, la naturalezza dalla affettazione".

La risposta all'incipiente naturalismo meridionale non poteva essere più elusiva; né meno reticente l'ossequio, pur sempre dichiarato, al vero. E il Faccioli, fortunato frequentatore delle grandi esposizioni nazionali, enfatizza quell'esigenza di intimismo e facilità sentimentale, che s'era fin li espressa prevalentemente nella pittura di genere, col passo ridotto della committenza piccolo e medio borghese. Inizia l'ultimo e più difficile tragitto della pittura di storia. Il Monitore di Bologna (19 ottobre 1873) avverte come "la scelta del vero sia molto più facile applicata alla natura fisica, che non al dramma dei costumi e delle passioni umane''. E prosegue: "Un vecchio paesista bolognese affermava che nelle nostre campagne per trovar felici argomenti di quadro «basta sapersi mettere a sedere». Sentenza piena di verità e finezza".

A una nozione del vero ormai tanto svilita reagisce la pittura di Luigi Serra, con una diposizione sempre più esplicitamente idealizzante, così da suggerire ad un suo ammiratore una nuova categoria, quella del 'vero morale'. Il profilo critico di Poppi fornisce qui di seguito la ricostruzione attendibile di una vicenda che risulterà tra le più ostiche di quegli anni; ma anche, si deve avvertire, delle più alte e complesse: con un esito romano anch'esso incerto e difficile, che fece del Serra figura di punta, benché isolata e di poca fortuna, negli anni in cui aveva maggiore risonanza il Michetti. Qui preme avvertire come in Bologna, dove si presentò con opere autorevoli già all'indomani di un soggiorno di studio fiorentino, presso Saverio Altamura, Serra spiccasse prestissimo per l'ardimento degli innesti e l'autonomia di giudizio. In questo grande Annibale Bentivoglio nel carcere di Varano sono lontani quegli intenti di edonismo rievocativo che distinguevano gli esempi di Morelli, ai quali pure si richiama: con punte di un naturalismo forzato e coinvolto, che sortiscono nondimeno ad esiti di spiccata intellettualizzazione, di esasperata concentrazione drammatica e psicologica. In un percorso come il suo, pieno di vitali contraddizioni, non viene mai meno una serietà di fondo, coltivata con estrema coerenza intellettuale: che tocca nella immensa tempera per il catino aziendale di Santa Maria della Vittoria un apice di pacato rigore; ed ha nella più tarda ed ingrata pala per il Santuario del Cestello un momento di stilizzazione altissima, col paese di fondo campito nettamente, al limite di una vibrante astrazione. Ilinjearl Serra visse drammaticamente la sua condizione di artista di avanguardia, diviso tra Roma e Bologna, ma non privo ovunque di sostegni autorevoli e amicizie importanti: sempre con una coscienza di sè alta ed inquieta. Luigi Bertelli, che nella Bologna carducciana restò per forza di cose radicato per sempre, non vantava alcuna amicizia letteraria. In questa lettera del 1880 "all'Ill.mo ed Ecc.mo Proff.re Panzacchi", prendendo la parola con la sua grammatica sempre stenta ed incerta, ci rappresenta con tale disillusa ambascia la sua condizione di solitario 'professore del vero', da meritare la citazione integrale:

"Esaurite ormai tutte le speranze e lusinghe per la vendita del mio quadro esposto in S. Michele in bosco ricorro in ultimo di nuovo alla S. V. facoltandola di venderlo personalmente anche al prezzo di £ 400 ed anche trecento compreso la cornice ne sarei soddisfattissimo per togliermi il dispiacere di doverlo ritirare nello Studio dopo stato esposto al pubblico per 6 mesi non facendomi caso peraltro riflettendo che tanti altri anche più di me meritevoli si trovano nelle stesse condizioni se indipendente da ciò potessi avere una riga della S. V. di osservazione e critica del mio lavoro esposto lo aggradirei moltissimo per regolarmi in altri lavori d'arte che potessi fare. Voglia scusarmi del disturbo e con tutto il rispetto ed ossequio..." (Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, collez. Autografi, VII, 2137). 

Renzo Grandi

Testo tratto da "Dall'Accademia al Vero. La pittura a Bologna prima e dopo l'Unità", 1983.