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'A cagione che di continuo si fanno grandi lavori' - Scultori stranieri in Certosa

1801 - 1960

Schede

“Uscendo dalla Chiesa”, scrive Girolamo Bianconi nella sua Guida di Bologna stampata in città il 23 settembre del 1826, “a mano sinistra si ritrova l’ingresso al Cimitero”. “Restano in faccia alcune Sale, ove vengono collocati i monumenti de’ secoli passati…”, e poi, “inoltrandosi resta a destra la nuova Sala delle Tombe…”, mentre in “altra Sala … si ammira fra gli altri …”. “Vi sono moltissime Celle, e monumenti pregevoli …”. “Finalmente si ritrova il gran Chiostro quadrato …”. Bianconi si arrende, descrivere la Certosa è impossibile: eppure è nata appena venticinque anni prima, nell’anno 1801. Si arrende alla crescita speranzosa e devota di una città che sta costruendo giorno dopo giorno quella seconda città, la città dei morti… Non un cimitero, non semplicemente un cimitero. Inaugurata nell’aprile del 1801, anticipando addirittura l’ormai mitico Editto napoleonico di Saint Cloud datato 1804, la Certosa si accresce di monumenti e memorie, di opere d’arte e di fiducia. Quarantatre anni dopo avrebbero ritrovato, proprio al centro del Chiostro delle Madonne, l’antico sepolcreto etrusco. Poveri e ricchi, contadini e borghesi, etruschi e bolognesi, uniti, e finalmente, in una città sconfinatamente accessibile. “Non crediamo di dover qui descrivere i moltissimi monumenti che in questo Cimitero si ammirano innalzati dalla pietà de’ Bolognesi a’ loro trapassati, benché l’importanza loro, ed il nome de’ loro eccellenti autori giustamente lo richiedessero. Ma oltre che qualunque nostra descrizione riuscirebbe imperfetta a cagione che di continuo si fanno nuovi lavori…”.

Chissà se Bianconi avrebbe visto, di lì a pochi anni, l’imponente statua di Lorenzo Bartolini con Pallade e il Genio della Gloria nella Tomba Malvezzi Angelelli del Colombario che Felice Baciocchi dedicò alla moglie Elisa, sorella di Napoleone. Già Principe di Piombino e di Lucca e poi Granduca di Toscana, Baciocchi si era stabilito a Bologna, città dove morì, fin dal 1821. Ancora nel 1833 Felice attendeva l’arrivo dell'opera: uno dei motivi del ritardo fu la vena scura apparsa sul marmo del volto di Elisa, una lunga cicatrice naturale che oggi si confonde con l’altrettanto naturale annerimento della pietra. Amico di Ingres e allievo di David, vincitore del Prix de Rome nel 1802, Lorenzo Bartolini era stato nominato direttore della scuola di scultura all’Accademia di Carrara da Napoleone in persona. Bartolini è il primo grande scultore italiano che irrompe nella bolognese Certosa. La solennità della composizione e l’importanza della commissione nulla tolgono alla ricerca di una reale presenza di nervi e muscoli, pieghe e ombre e il piccolo Genio della gloria stretto alla Magnanimità è davvero un bambino ritratto con devota certezza. Allievo di Bertel Thorvaldesen, Pietro Tenerani, nato nello stesso anno in cui iniziò la rivoluzione francese (1789), fu chiamato a Bologna dall’architetto napoletano Antonio Cipolla, autore di diversi monumenti funebri. Tenerani celebra in Certosa la figura classica e romana di Antonio Silvani, avvocato e patriota, ritratto con serena onestà e inesausta speranza, tra memorie classiche e impellente realismo. Come era accaduto con Elisa Baciocchi, la storia europea giunge ancora a Bologna e nella sua città dei morti con il monumento al generale Giuseppe Grabinski, l’ufficiale polacco già amico di Napoleone a cui era stato affidato l’incarico di combattere il brigantaggio tra Bologna e la Romagna. Protagonista chiacchierato della scena mondana cittadina, il militare aveva sposato una bella contessa bolognese, Anna Maria Broglio. Il solenne ritratto in marmo lo raffigura, “rivestito dalla clamide classica”, mentre “tiene con la destra la spada e con la sinistra una grande bandiera”, come spiegava Angelo Raule nella sua guida alla Certosa di Bologna del 1961. 


Classico e neoclassico insieme, il monumento è una dichiarazione esplicita di fedeltà all’arte antica. Passano pochi anni e un altro protagonista della storia europea giunge nell’antico monastero certosino. È Gioacchino Murat, grande soldato e marito della sorella minore di Napoleone. Murat troneggia dalla tomba della figlia, la marchesa bolognese Letizia Pepoli, con la statua in marmo di Vincenzo Vela, datata 1864. Effigiato in divisa, tra trofei e simboli regali, il viceré di Napoli poggia un piede sul cannone. Appassionato patriota e soldato nelle Cinque Giornate, Vela declina la sua passione per la realtà con la solennità togata e necessaria al soggetto, che s’impone nella Sala del Colombario, tra le tante lapidi di nomi perduti e strazianti iscrizioni. Onore e gloria, gloria vera e gloria perduta: il capolavoro della Certosa è sempre opera di Vela. Nella Desolazione del 1875 lo scalpellino svizzero di Ligornetto raffigura un’immagine eterna, non da vivi e non da morti. È un volto vivo e presente, una faccia di oggi, nostra e vera, che accoglie e traduce in pietra l’infinita possibilità della scultura, morte e speranza, desolazione e attesa. Stretto il volto tra le mani, la statua della tomba Gregorini Bingham, i lunghi capelli che calano dal volto, il sommario panneggio delle vesti, incarna ogni struggimento, dalla disillusione patriottica dell’autore, che rifiutò la cattedra a Brera sotto il governo austriaco, alla disperazione di una ragazzina. È realismo? È naturalismo? Vela è tanto capace di osservare la realtà, quanto di restituirla con l’aura di un significato assoluto e superiore. Volto da Stabat Mater di Pergolesi, egualmente attonito e invitto. La Desolazione fu subito riconosciuta come uno dei capolavori della scultura in Certosa; Vela, quando la statua fu allocata dopo un lunghissimo travaglio, nel 1875, era un artista celebrato in tutta Europa. Tra l’enfasi retorica del Murat e la silente sobrietà della Desolazione si traccia la parabola eletta della scultura italiana dell’Ottocento, troppo a lungo relegata, dalla nostra storia dell’arte, tra l’indifferenza delle piazze e la superstizione dei cimiteri. Abitini e calzini, pizzi riccioli e scarpette adornano la commovente scena in cui Augusto Rivalta, scultore di Alessandria già vicino ai macchiaioli, celebra la precoce morte di un bambino della famiglia Minghetti. Autore della statua equestre di Giuseppe Garibaldi in piazza de Ferrari a Genova, Rivalta è attivissimo nel cimitero di Staglieno. Minuzia e struggimento si accordano nel teatrino incorniciato di fiori, opera sorretta da una straordinaria bravura che riesce a dare alla pietra la mutevole varietà dei sentimenti infantili, dalla curiosità allo stupore, dalla compassione all’impazienza.


Il toscano Salvino Salvini era giunto a Bologna nel 1861. Di formazione purista, “fra il vecchio Bartolini e Tenerani” (Stefano Tumidei), Salvini ottenne la  cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna un anno dopo la grande riforma del 1860. Non ebbe rapporti facili con la città eppure riavette molte commissioni in Certosa: dal monumento a Giovanni Contri, accademico illustre, alla Madre col Bambino per il sepolcro De Simonis, alla paludata immagine della Religione per la cappella funeraria di Prospero Marsigli, opra in cui Salvini ritorna all’antico, nella stringata compattezza di una salda figura femminile avvolta dai panni rigidi del suo simbolo. Pittore e scultore, anche Giorgio Kienerk porta dalla Toscana un saggio di raffinato eclettismo. La Tomba Comi della Sala San Paolo rivela la cultura profonda dell’artista: al centro di un ancona in stile rinascimentale sfilano in silenziosa processione le immagini della Vita umana. Tra Michelangelo e Auguste Rodin, Kienerk raggiunge una sintesi eletta, che dà al marmo il ritmo modulato di una musica segreta. “Non crediamo di dover qui descrivere i moltissimi monumenti che in questo Cimitero si ammirano innalzati dalla pietà de’ Bolognesi a’ loro trapassati, benché l’importanza loro, ed il nome de’ loro eccellenti autori giustamente lo richiedessero…”. Si ritorna a Bianconi, per ribadire quanto, più uno s’addentri e provi, sia impossibile descrivere la ricchezza di un sistema di arte e di vita che non è un cimitero, ma una vera città, ancor oggi popolata dai passanti che attraversano la Certosa per andare allo stadio. Tre casi soltanto per significare il Novecento. Amerigo Tot, Giacomo Manzù e Jenny Mucchi. Il primo è l’autore della scultura della cappella funeraria Goldoni, progettata da Giuseppe Vaccaro, uno dei massimi interpreti del razionalismo italiano. Allievo di Maioll a Parigi e fervido seguace del Bauhaus, Tot incide nel marmo del suo Giudizio finale una novecentesca caduta di corpi vinti, anime e corpi teste e mani e ali d’angelo, che si confondono, arresi e magari futuri vincitori. C’è ancora Rodin, e Michelangelo, come sempre. Tot è l’autore del fregio della stazione di Roma Termini, altro luogo di passaggio. Manzù è nato soltanto un anno prima di Amerigo Tot: 1908 e 1909.

Giacomo Manzù dedica a Giorgio Morandi un volto serio, rigorosissimo e distante. Un ritratto vero, senza sconti. Sulla tomba, progettata dall’architetto Leone Pancaldi, avrebbe dovuto esserci invece il vivace San Giorgio che è oggi nella collezione della Fondazione Magnani Rocca. Manzù fu scoperto dall’amico e collega Nino Bertocchi, pittore e critico d’arte bolognese. Manzù dedicò a Bertocchi una scultura in bronzo, già al cimitero di Monzuno, che venne rubata dieci anni fa. E ancora la cerchiamo. Jenny Wiegmann Mucchi paga ancora il tributo di essere artista vera e artista donna. Le cinque sagome che s’affacciano dall’assurdo e geniale invaso del milanese Piero Bottoni per l’Ossario per i caduti partigiani degli anni Cinquanta del secolo scorso, sorprendono il visitatore per l’audacia del progetto e la bellezza delle figure. Jenny era nata a Berlino nel 1895, figlia di un pasticciere berlinese e della berlinese Secessione: lascia un’opera unica e senza nome nella Certosa bolognese. Figura complessa e perdente come solo le artiste femmine riuscirono ad essere, le scultrici in particolare, Jenny morì nel 1969. L’amore della sua vita, il pittore e marito Gabriele Mucchi, alla sua morte depositò le ceneri di Jenny vicino a quelle di Käthe Kollwitz, scultrice invitta e maestra del Novecento tedesco, nel cimitero di Friedrichsfelde, a Berlino.

Beatrice Buscaroli

Testo tratto dal catalogo della mostra "Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna", Bologna, 29 maggio - 11 luglio 2010, Bononia University Press.