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Triplice delitto di via Strazzacappe

settembre 1946

Schede

Una nebbia intensa avvolgeva una sera della prima settimana di settembre dell’anno 1946. La nebbia in quegli anni era un grosso pericolo per chi doveva circolare all’interno della mura e soprattutto fuori. Siamo nell'immediato dopoguerra e tante strade erano buie. La famiglia Fini, abitante sopra il proprio negozio e magazzino di via Strazzacappe, stava per andare a dormire. I coniugi erano appena rientrati da uno spettacolo cinematografico dall’Arena del Sole. La moglie aveva sentito uno strano rumore venire da sotto e il marito si era affacciato dalla finestra che dava sulla strada, vedendo alcune ombre aggirarsi attorno alla serranda e al portone del magazzino. Fini volle scendere per verificare cosa stava accadendo, ma era sulle scale quando la moglie lo fermò, e gli disse: “Non andare è pericoloso!”. “Voglio solo vedere, rendermi conto”. “Allora vengo con te”. Appena furono fuori, nella strada, videro tre malintenzionati con il volto semicoperto da sciarpe impegnati con armi da scasso, attorno al portone di entrata. “Vigliacchi!”, gridò Fini, e subito dopo un colpo di pistola lo fulminò. La signora, alla vista del marito che sanguinava, incominciò a urlare, e una seconda pallottola uscita dalla stessa pistola la ferì mortalmente facendola accasciare sul corpo del marito. Una terza persona, una donna che passava casualmente di lì, si prese un altro colpo mortale.

Questo orribile fatto di sangue spaventò non poco i bolognesi. Ed al dirigente della Mobile, il dottor Pacifici, fu affidata la gestione del caso. I carabinieri di Ozzano, in una delle solite perlustrazioni, alla caccia della temutissima “Banda della via Emilia” - un gruppo di malfattori dimoranti tra Ozzano, Castel San Pietro e Imola, dedito al saccheggio di persone e di abitazioni - fermarono un camioncino sospetto e trovarono nascosto sotto un panno la refurtiva che proveniva dal magazzino di Fini a Bologna, oltre ad oggetti per atti di scasso, come un piede di porco. I carabinieri consegnarono alla Questura di Bologna Giuseppe Domenicali, di 23 anni e abitante a Imola. Fu accusato del triplice omicidio, ma egli cercò di diminuire le proprie colpe, dicendo che la sera del delitto si era recato in via Strazzacappe per parlare con Fini che riteneva essere il suo padre legittimo. Tra lui e Fini era nata una discussione e dalle parole si era passati ai fatti. Anche se Domenicali era registrato all’anagrafe con paternità sconosciuta, non riuscì comunque a tenere in piedi la scusa poiché il giudice istruttore aveva convocato anche la madre del Domenicali, che smentì ogni dichiarazione del figlio.

La stampa e l'opinione pubblica chiesero la pena di morte per i colpevoli di questo orribile triplice delitto. Nel corso del processo, Domenicali aveva confessato in parte e il suo avvocato cercò di attribuirgli la totale infermità mentale, richiesta che fu accolta solo in parte. Giuseppe Domenicali venne condannato ad una lunga detenzione, ma usufruì di uno sconto della pena per buona condotta e uscì dal carcere dopo quindici anni. Si trasferì a Verona, dove trovò lavoro in una officina meccanica e si sposò con Milda Piazzoli. Ma le pulsioni omicide lo riportarono agli onori della cronaca: una notte, colpito da un impulso di gelosia, uccise la moglie recidendole la carotide. Fu arrestato, e due giorni dopo si impiccò nel carcere, mettendo fine alla sua vita.

Loredana Lo Fiego

Bibliografia: Giuseppe Quercioli, Bologna criminale, trenta delitti all'ombra delle Due Torri, Bologna, Pendragon, 2002