Salta al contenuto principale Skip to footer content

Palazzo della Cassa di Risparmio

Di rilevanza storica

Schede

La costruzione del sontuoso palazzo per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Bologna fu completata nel 1876 su progetto dell’architetto Giuseppe Mengoni, uno dei massimi esponenti dell’architettura italiana della seconda metà dell’Ottocento, artefice di altri importanti interventi all’interno delle mura felsinee. Moltissime furono le maestranze chiamate ad eseguire ogni tipo di decorazione architettonica, scultorea, di arredo. Tra i tanti la ditta di marmisti Davide Venturi & figlio o il maestro del ferro battuto Sante Migazzi. Un buon numero di scultori ne ha decorato esterni ed interni, tra cui Arturo Colombarini, Giuseppe Pacchioni, Stefano Galletti, Giuseppe Romagnoli.

Il seguente testo è tratto da Cent'anni fa Bologna : angoli e ricordi della città nella raccolta fotografica Belluzzi, Bologna, Costa, 2000

L’idea di una nuova residenza si era manifestata tra gli amministratori della Cassa già alla fine degli anni Quaranta, ma solo nel 1859 l’Assemblea deliberò che la rimanenza attiva in bilancio «si assegnasse per una metà a far fronte alla spesa di acquisto [...] dello stabile di residenza» e dava facoltà al Consiglio di «concludere l’acquisto purché non si superasse il fondo e si conseguisse lo scopo di una residenza stabile, centrale e del tutto soddisfacente» (La Cassa di Risparmio in Bologna nei suoi primi cento anni, 1937, p. 54). Tramontata definitivamente l’ipotesi, a lungo accarezzata, di acquistare dal Comune il palazzo del Podestà per mantenervi ed ampliarvi quella che era stata la sua prima sede, collocata al primo piano, venne individuata una delle aree non ancora edificate tra quelle acquistate dalla Banca Nazionale. Il Consiglio, nell’adunanza del 10 novembre 1866, approvò l’acquisto delle case poste all’angolo fra la via Castiglione e la strada allora denominata Ponte di Ferro.

Il nuovo palazzo della Cassa di Risparmio si inserisce all’interno di un’area che in quegli anni era soggetta ai lavori di sventramento intrapresi dall’amministrazione postunitaria per rendere la città rappresentativa del nuovo corso politico, mutandone il volto tradizionale. Il governo pontificio aveva significato per Bologna una lunga stasi in campo urbanistico: bisognava ora realizzare “grandiosi lavori straordinari”, definiti nel decreto Farini del 30 gennaio 1860 «di pubblica utilità e urgenza», in modo da fornire una cornice adeguata all’affermarsi del nuovo potere. Le decisioni relative, cui non erano estranee finalità di speculazione edilizia, visto che i lavori avrebbero aumentato il valore delle aree, degli immobili e delle attività commerciali, furono esaminate e approvate nel giro di pochi giorni dal Consiglio comunale provvisorio, che poté procedere ai lavori con la massima celerità, prima dello scadere dei suoi poteri. Nell’area adiacente ai palazzi inquadrati dalle foto, il decreto prevedeva l’allargamento di Borgo Salamo, passaggio angusto e pieno di strozzature, nella prospettiva di creare un nuovo asse stradale tra le vie San Mamolo e San Giovanni in Monte. I lavori di risistemazione della zona, disseminata di scoscesi marciapiedi e strettoie su cui si affacciavano portichetti bassi e botteghe male illuminate, riguardarono anche gli antichi palazzi nobiliari che necessitavano di un’operazione di “taglio” e rimodellamento di fiancate e prospetti frontali per renderli a misura del nuovo tracciato stradale. Per i lavori l’amministrazione comunale, suscitando aspre polemiche, ricorse allo strumento dell’esproprio: dal maggio 1861 al maggio 1863 in questa zona venne decisa l’alienazione totale delle case della marchesa Luigia Ratta Agucchi, per l’allargamento della via Libri, quelle del conte Ercole Tacconi in via Miola e infine la residenza dello stesso Luigi Pizzardi - primo sindaco di Bologna dopo l’Unità - in via San Mamolo.

Le lunghe e complesse vicende giudiziarie che seguirono videro l’amministrazione comunale definire in modo innovativo il concetto di utilità pubblica, allargandolo fino a comprendere il decoro urbano. Ma la demolizione delle “casupole malsane” che avevano storicamente convissuto con i palazzi gentilizi comportò anche l’espulsione dal quartiere dei popolani che le abitavano. Cominciò così a modificarsi definitivamente il rapporto dialettico fra monumenti ed edilizia minore, vista come un corpo estraneo da eliminare. La nuova organizzazione, ridisegnata sulle istanze borghesi, avrebbe distrutto l’interclassismo che tradizionalmente aveva improntato la gestione dello spazio abitativo urbano, ignorando le esigenze dei ceti popolari e lasciando irrisolti i problemi legati alla carenza di infrastrutture, servizi e quartieri moderni. Nel 1866 Borgo Salamo assunse il nome di via Farini con una delibera approvata all’unanimità nella seduta consiliare dell’11 settembre (la nuova denominazione nel 1874 si allargò alle vie dei Libri, Ponte di Ferro e Miola). La mozione fu proposta dal consigliere Giambattista Ercolani che enumerò «le virtù e i fortissimi propositi di cui diede tante prove il Farini [...] proponendo che in tributo di eterna stima e riconoscenza venga riunita la piazza che prenderà il nome di Cavour con una strada che prenda denominazione di Farini, reputando che questi due nomi personificheranno nell’avvenire il concetto della intelligenza superiore alla forza nell’epoca nostra» (Consiglio comunale, sessione straordinaria, III, Bologna, Regia tipografia, 11 settembre 1866). Piazza Cavour fu aperta nel 1867. Adiacente ad essa, negli stessi anni, venne realizzata via Garibaldi. L’esigenza di lasciare un’impronta duratura del cambiamento politico nel volto della città veniva così coronata anche con la toponomastica.

La costruzione della residenza della Cassa di Risparmio e i lavori di risistemazione dell’intera area sono, infine, emblematici dei modi diversi con cui professionisti pubblici e privati concepivano l’urbanistica. Era urgente che il ceto risorgimentale, chiamato ad amministrare la città, svecchiasse anche gli uffici deputati alla gestione della cosa pubblica. La modernizzazione dell’Ufficio tecnico, deputato a dirigere i “lavori straordinari”, procedette parallelamente a questi. Un nuovo regolamento ne definì per la prima volta le competenze, l’organizzazione e le risorse, in una struttura verticistica imperniata sulla figura centrale dell’ingegnere capo. Si percorrevano così i primi passi verso la formazione di una burocrazia professionale locale che con difficoltà cercava di affermare la propria identità e autonomia dall’élite politica. Il primo a dirigere questo ufficio in un momento così delicato fu Coriolano Monti, rimasto in carica dal 1860 al 1866, autore delle opere che trasfigurarono le aree adiacenti a via Farini, alla futura via dell’Indipendenza e a via Saragozza, incidendo profondamente sull’impronta urbanistica attuale. Benché i lavori cambiassero completamente l’aspetto dei quartieri e il prospetto di antichi palazzi, l’operato dell’ingegnere capo non si pose in contrasto con la cultura e la storia della città, adattando lo stile ufficiale dell’unità nazionale al contesto urbano bolognese e cercando di conciliare cosa pubblica ed interessi privati. Questo modo di concepire l’architettura e di porla in relazione con la città e la sua storia avrebbe portato Monti a contrasti accesi con cittadini che facevano opinione e con professionisti privati, tra cui Giuseppe Mengoni, lontani da quella sensibilità. Mengoni rappresentava l’archetipo di una nuova architettura, legata a un contesto culturale eclettico, internazionale, che andava diffondendosi grazie alle esposizioni. La Cassa di Risparmio, cominciata poco dopo l’avvicendamento di Monti, era stata progettata sull’esempio delle scuole architettoniche d’avanguardia presenti quell’anno all’Esposizione di Parigi. L’obiettivo non era adattarsi al contesto urbanistico, ma piuttosto trasfigurarlo, con un’opera monumentale estranea al luogo, in linea con il mutamento intervenuto nel giro di qualche anno dall’Unità negli umori nella borghesia cittadina: svanita la passione unitaria, il punto di riferimento non era più il quadro nazionale, ma le grandi capitali europee, prese a modello nella ricerca dell’eredità di una storia non italiana.

Successivamente, nel 1893, in via Farini, lungo il lato occidentale della residenza della Cassa di Risparmio, venne aperta un’altra piazza, ornata da alberi e aiuole, dedicata a Marco Minghetti che, con piazza Cavour, diede alla zona la caratteristica di città-giardino, concezione di stampo romantico tipicamente ottocentesca. A ridosso del giardino Minghetti, in piazza del Francia, fra il 1905 e il 1911, sorse anche il nuovo palazzo delle Poste. I lavori si svolsero fra il 1868 e il 1877, secondo una necessità documentaristica che andava diffondendosi fra architetti e ingegneri per dare conto dei criteri di realizzazione adottati.