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La Grande Causa Bolognese

1860 | 1881

Schede

La giovane accostò il binocolo agli occhi e, come tutte le signore e signorine che popolavano le tribune, orientò lo sguardo verso un punto preciso della gabbia in cui erano rinchiusi gli imputati, fissandolo su un uomo dalle forme leggiadre il quale, consapevole del proprio fascino, contraccambiava sfacciatamente e con una specie di compiacenza quegli sguardi ben poco lodevoli – scrive Ercole Bottrigari nella sua Cronaca di Bologna. Si trattava di Pietro Ceneri, temuto capo della cosiddetta Associazione dei Malfattori che aveva imperversato impunita a Bologna negli anni precedenti e immediatamente successivi all’Unità, commettendo rapine a mano armata, estorsioni, omicidi. L’Associazione era organizzata, secondo schemi che oggi diremmo mafiosi, in Balle (ovvero combriccole) che si dividevano in modo ferreo il territorio. C’era la Balla di Saragozza, quella di Mirasole, quella di Torleone, della Fondazza e altre ancora. La più importante di tutte era quella di Piazza, meglio conosciuta con il nome di Balla dalle scarpe di Ferro, che controllava tutte le altre e il cui capo era il bel Pietro Ceneri dagli occhi di ghiaccio che, in quel giorno del 1864, la giovane donna e tutte le signore della tribuna erano venute ad ammirare con una certa morbosa compiacenza.

Quel processo, che vedeva alla sbarra 110 imputati, rappresentava la conclusione di una lunga stagione di delitti compiuti con la certezza dell’impunità. Una certezza che aveva preso corpo durante il decennio austro-pontificio per l’inadeguatezza delle forze di polizia e forse anche per collusioni e complicità con gli agenti. L’inevitabile epurazione dopo l’Unità portò in città nuovo personale né adatto né sufficiente per numero all’oneroso e difficile incarico. L’aggressione al conte Giovanni Malvezzi, il 5 luglio 1860, derubato di un orologio rarissimo oltre che di tutto il denaro; l’assassinio del giovane Guidi in un tentativo di furto dell’incasso della drogheria di famiglia, la vigilia di Natale di quello stesso anno; l’assalto alla diligenza di Toscana, presso Porta Saragozza, la notte fra il 4 e il 5 febbraio 1861, nel tentativo de derubare un’ingente somma che avrebbe dovuto servire all’ufficiale pagatore della Ferrovia in costruzione sull’Appennino ma che risultò inutile poiché con quella corsa non venne spedito il denaro; il furto, nella notte fra il 15 e il 16 luglio 1861, presso la Zecca di Bologna, ormai prossima alla chiusura definitiva, di alcune verghe d’oro; le lettere anonime e minatorie inviate a persone agiate della città con richiesta di denaro: tutto ciò suscitò costernazione e rabbia fra i cittadini che chiesero a più riprese l’intervento del governo.

Ma fu l’omicidio, nella notte del 29 ottobre 1861, del vice-questore Grasselli e dell’ispettore di polizia Fumagalli, freddati in Strada Maggiore con alcuni colpi di arma da fuoco, che determinò il governo a inviare due funzionari veramente validi: il prefetto Pietro Magenta che si dedicò, sin dal suo arrivo, alla compilazione di un libro nero in cui iscrisse tutte le persone compromesse o sospette (non esisteva ancora il casellario giudiziale) e il questore Felice Pinna il quale proseguirà in modo sistematico il lavoro iniziato da Grasselli. I malfattori accolsero i nuovi funzionari con un furto alla cassa della stazione ferroviaria il cui bottino fu di ben 80 mila lire. Quando, nel maggio 1862, fu compiuto a Genova il famoso furto al Banco Parodi che fruttò ai malviventi la somma, ingente all’epoca, di 800 000 lire, la questura, grazie al lavoro di Magenta, postasi sulle vere tracce di quei birbanti, giunse a catturarli in mare, mentre se ne fuggivano sulla Tartana Amore e Patria in direzione di Alessandria d’Egitto. Sei Bolognesi, per nome Catti, Ceneri, Minarelli, Sabattini, Nanni e Rossi furono i catturati, i quali portavano in dosso due Bombe all’Orsini e molte armi. Solo la metà della refurtiva fu recuperata.

Dopo il processo tenutosi a Genova, i malviventi furono tradotti a Bologna. Non essendoci aule giudiziarie adeguate, la Grande Causa Bolognese fu istruita nella Sala d’Ercole del Palazzo Comunale il 26 aprile 1864. Quella che in seguito fu chiamata causa longa durò fino al 17 ottobre, quasi 180 giorni, e destò grande interesse in città al punto che – racconta Bottrigari – non vi fu un bolognese che non siasi recato nell’aula del dibattimento per vedere tanti malandrini entro la gabbia di ferro. Ciò che suscitava sdegno nei benpensanti era il vedere ogni giorno popolate le tribune riservate da molte Signore e Signorine cui questo brutto dramma criminale serviva a diletto. E, come sappiamo, i binocoli da teatro delle dame erano puntati soprattutto sul bel Pietro Ceneri. Noi di questo salotto siamo però incuriositi da quell’unica figura femminile avvolta in uno scialle che, nel disegno circolante all’epoca, appare in posizione centrale.

Le cronache dell’epoca ce la descrivono come non bella ma dotata di un viso espressivo e intelligente. Il suo nome è Maria Mazzoni e, se non ha mai partecipato direttamente ai fatti in questione, svolge tuttavia un ruolo di grande rilievo nell’organizzazione criminale. È il tesoriere, ovvero la persona di fiducia del capo, quella che tiene i cordoni della borsa e si preoccupa di pagare gli avvocati, di mantenere le famiglie di coloro che sono in galera e, se è il caso, anche di corrompere qualche giudice ben disposto. Si tratta di un ruolo di grande responsabilità che Maria svolge con lealtà ed equilibrio. Come sia giunta a questo grado di potere non appare chiaro. Con ogni probabilità, entra nella banda per seguire il marito Filippo Giugni, uno sguattero d’osteria, e diventa presumibilmente l’amante del capo. Da questa posizione può mettere in risalto le sue capacità riuscendo a far carriera meglio del marito. Si esprime quasi esclusivamente in dialetto, eppure è in grado di tener testa al sardo Pinna, il temutissimo questore, e al processo nega tutto. E soprattutto dichiara di ignorare dove sia finito il resto della refurtiva. I malfattori sostengono di averlo gettato in mare, ma è più probabile che Maria, svolgendo con lealtà fino alla fine il proprio ruolo di cassiera, lo abbia nascosto in un luogo sicuro. Alla fine del processo è condannata a dieci anni di reclusione.

E Pietro Ceneri? In quanto capo dell’associazione, è condannato ai lavori forzati a vita. Nel corso di un trasferimento in un carcere dell’isola d’Elba, riesce a fuggire buttandosi in mare fra Livorno e Portoferraio. È raccolto da un’imbarcazione che, casualmente – così appare in un primo momento – si trova in quello specchio di mare. Di lui non si sa più nulla per molto tempo. Molti anni dopo, si apprende che ha fatto buon uso del denaro messo al sicuro da Maria. Il diplomatico Alessandro Guiccioli ci riferisce nel suo diario, in data 10 novembre 1881, che a Buenos Aires condusse vita signorile sotto falso nome non mancando di elargire denaro in beneficenza, infine fu catturato in Perù.

Marinette Pendola

In collaborazione con Associazione 8cento, tratto dalla rivista Jourdelò n. 25 del 2015. Maggiori informazioni e notizie sno disponibili nel sito della Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna.