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Monumento di Giovanni Battista Morandi

1817 ca.

Schede

Nei primi anni del XIX secolo sono i pittori, eredi della tradizione quadraturista bolognese, ad eseguire monumenti dipinti privi di simbologie religiose, perché l’affresco ha costi più competitivi e maggiori possibilità espressive. Queste “meraviglie” sono riprodotte ad acquerello da Petronio Ricci (Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio), in stampa da Raffaele Terry, Giovanni Zecchi e, in forma più lussuosa, da Natale Salvardi.
Nel Recinto dei Sacerdoti e delle Monache, una successione di quattro stanze, elementi superstiti
dell’originaria struttura a celle monacali della Certosa, unite da un loggiato, è sepolto il settantaseienne Giovanni Battista Morandi, canonico della Basilica Petroniana, la cui tomba è commissionata dai fratelli al toscano Luigi Cini.

L’artista, trasferitosi a Bologna dopo l’apprendistato fiorentino, oltre ad essere un apprezzato scenografo, è un raffinato decoratore d’interni che collabora con Antonio Basoli, Pelagio Palagi e Felice Giani in alcuni palazzi bolognesi. Il suo ductus grafico è più brillante nelle partiture decorative che non nella resa delle figure rigide e stentate come quelle dell’affresco eseguito per la tomba del canonico Morandi, “Professore emerito dell’Università, Esaminator Sinodale, divulgatore, ed illustratore delle opere di uomini insigni, che ebbe 76. anni di vita, e morì alli 15. di marzo”, come riporta Zecchi, a didascalia dell’incisione.
Il primitivo progetto conervato dalla Fondazione CaRisBo, erroneamente attribuito a Giuseppe Fancelli, è molto diverso rispetto al monumento realizzato, in particolare nel sarcofago di forma classica, decorato al centro con un medaglione recante il profilo del defunto mentre i lati presentano due proposte diverse di decorazione, una architettonica ed una a girali fitomorfi. Per il basamento, l’artista proponeva un rilievo raffigurante un professore, chiara allusione all’attività del Morandi, che impartisce una lezione ad alcuni discepoli ed in basso, al centro, inseriva la lapide con l’iscrizione fra una testa di leone ed una di toro.

La versione definitiva, puntualmente riportata dalle incisioni di Ricci e di Zecchi, è dovuta o ad una variante in corso d’opera dello stesso Cini, o, più probabilmente, dal parere della commissione dell’Accademia di Belle Arti, in ottemperanza all’articolo XVIII del regolamento emanato dal cardinale Opizzoni, al definitivo tramonto dell’epopea bonapartista, che stabilisce che “I monumenti, le iscrizioni sepolcrali, le pitture, le sculture, gli emblemi e gli ornati, che sono in così lodevole uso nel cimitero dovranno…essere assoggettati prima dell’esecuzione alla nostra approvazione…”. In virtù di questo, gli artisti devono presentare un progetto preliminare che deve passare al vaglio di una commissione e, una volta realizzata l’opera, hanno l’obbligo di garantirne l’inalterabilità, pena il restauro a proprie spese degli eventuali guasti.

Rispetto al primitivo progetto, il rilievo simulato in pittura, di gusto arcaizzante e ispirato a prototipi rinascimentali, non è più sul basamento ma occupa tutto il fronte del sarcofago, sul cui coronamento è seduta una figura femminile in atteggiamento desolato, chiaramente ispirata ad analoghe composizioni scultoree di Giovanni Putti (1771-1847), uno degli artisti più prolifici ed interessanti della Certosa, o a quelle del suo rivale, Giacomo De Maria.

Teresa Ferrari, Daniela Sinigalliesi

Estratto da: B. Buscaroli, R. Martorelli (a cura di), Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna, catalogo della mostra, Bologna, Bononia University Press, 2010.