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Lekythos alabastriforme con Apollo e Calliope

metà del V sec. a.C.

Schede

Il vasetto, che è in buona conservazione perchè si notano solo alcune piccole lacune sul collo, era nella collezione Skené e fu acquistato dal Palagi per la sua raccolta, che poi passò nel Museo Civico di Bologna. La pubblicazione migliore, quella di Giuseppe Pellegrini, risale all'anno 1900 ed è corredata da un disegno alquanto freddo e non del tutto esatto. Si è pensato di dare una nuova edizione che facesse apprezzare di più la nobile grazia delle figure, con una classificazione rispondente all'esperienza acquisita dalla critica nei sessant'anni decorsi.

L'oggetto è prezioso anzitutto per le qualità tecniche; la vernice nera è splendida, la decorazione accessoria di embrici, baccellature, ovoli, palmette e viticci è disegnata con fine tratto da miniaturista, e ravvivata da ritocchi bianchi. La forma è anch'essa delicata e non comune, quella della “lekythos alabastriforme” fatta per contenere profumi da versare goccia a goccia, non olii profumati. Questi in Grecia erano contenuti in vasetti panciuti con larga bocca a disco, sul quale si allargava l'olio emulsionato dallo scuotimento e che si stendeva sulla parte del corpo che si voleva lavare. Il vasetto da profumi aveva invece collo molto sottile e bocca a imbuto, fatta cioè in modo che il turacciolo potesse assicurare una chiusura ermetica. La lekythos era il tipico vaso per profumi, l'alabastron era uno dei vasi caratteristici per gli olii da emulsione: il vasetto Palagi è una graziosa contaminazione tettonica dei due tipi. Campate nel rosso dell'argilla cotta sul lucente fondo nero le due figure della decorazione poggiano su una base ornata, come sul terreno di un mondo ideale. Apollo è sceso fra le Muse non come cantore e citaredo pervaso dalla commozione lirica, ma come il poeta fine, elegante e mite, quasi ritroso e timido di fronte all'immensità degli ideali che ha scoperto e scopre nel creato. È coronato di alloro, porta l'abito dei mortali, la tunica sottile di lino e il mantello di lana ad ampie pieghe fluenti e compie un gesto comune, la spondé, la libazione con la patera in cui una bella e nobile fanciulla versa il vino da una brocca che la forma denunzia come metallica, al pari della tazza. Noi le pensiamo d'oro, perchè tutta la scena si svolge in una temperie di elevata raffinatezza. La fanciulla è pure vestita come le mortali, di tunica e di mantello, ed ha la folta chioma stretta da un ricco diadema radiato. Il ramo o l'alberello di alloro, virgulto sottile, tenuto nella sinistra dal dio, determina il raccordo spaziale fra le due figure, e fra esse e l'atmosfera, poichè nel rapporto dei piani fra il ramo stesso e la brocca tenuta dalla fanciulla si crea la profondità che conferisce valore di realtà all'azione.

L'iscrizione a sinistra ci dà la sicurezza che il giovane sia Apollo; al di là dell'alloro corrispondeva un'altra scritta probabilmente pertinente, ossia l'acclamazione kalòs; resta solo la prima lettera, mentre le altre sono svanite come avviene con frequenza nei vasi greci, dove le iscrizioni erano tracciate con colori a tempera distesi sopra la vernice del fondo. Poco conservata è anche la parola posta accanto alla giovane, ma quanto basta perchè si possa ricostruire il nome «Kalliope». La sicurezza dell'integrazione è data dalla possibilità di leggere i gruppi di lettere ka e op e dal confronto con un vaso attico, contemporaneo al nostro, conservato nel Museo Metropolitano di New York, dove si trovano pure Apollo e Calliope contrasegnati da iscrizioni leggibili. L'autore di questo vaso, che l'insigne conoscitore Sir John Beazley chiama «il pittore di Calliope», lavorò se non nella stessa officina certo nel tempo in cui fu attiva la fabbrica dove fu formata la lekythos bolognese, che si può attribuire al «Maestro del Lavacro» e datare poco dopo la metà del V sec. a. C., mentre gli scalpelli che cavavano dai blocchi di candido pentelico e dal pario le bellezze sovrumane del Partenone suonavano festosi sull'Acropoli come campanelli d'argento. L'idealismo prima che un sistema filosofico era allora un costume di vita e l'habitus dell'eleganza raffinata proprio degli ateniesi era giunto all'apogeo. Pericle era l'espressione più viva del tormento spirituale dei Greci, tesi sempre verso la sognata unità politica, che avrebbe dovuto essere libertà, democrazia e insieme rispetto dell'autonomia della città stato, Fidia incarnava lo spiritualismo estetico, radicato nella convinzione religiosa che fra il mondo degli dei e il mondo degli uomini non esistessero barriere. A testimonianza della fondamentale unità del sentimento artistico dei Greci, in cui si annullano i nostri termini convenzionali di arti maggiori e minori, di arte e artigianato, di arte e industria artistica, sta la ceramica ateniese, che c'invia lo stesso messaggio di chiarezza che c'invierebbe il capolavoro di un grande pittore o di un grande scultore. La lekythos Palagi anche quando fu creata era certamente considerata un oggetto non vile, ma non di valore eccezionale; chiunque avrebbe potuto comprarla in una delle numerose botteghe del Ceramico per farne dono a una fanciulla con l'augurio di divenire saggia e avvenente come Calliope e di trovare uno sposo bello come Apollo. Eppure essa, oggetto pregevole, ma non raro e non firmato, ci trasmette al pari dell'opera di un grande artista, una chiara nota che rapisce il nostro animo in sfere superiori.

Apollo e Calliope, figure dai ritmi calmi e fluenti, vestite con misurata eleganza non conversano fra loro, né alcun accenno di mimica facciale turba la serenità dell'espressione psicologica; non conversano, ma si guardano negli occhi e da quegli sguardi esce un dialogo non ripetibile nella prosa dei mortali. E' il linguaggio degli dei che i Greci pensavano sempre giovani, come a noi sempre giovane appare la Grecia antica, l'Ellade, giovinezza del mondo.

LUCIANO LAURENZI

Testo tratto da "APOLLO E CALLIOPE", in "Strenna storica bolognese", 1957.