Le Corbusier a Bologna

Le Corbusier a Bologna

1907

Scheda

Charles Edouard Jeanneret (il futuro Le Corbusier) giunge a Bologna il 18 ottobre 1907; prende alloggio in un hotel del centro (forse l'hotel Roma, allora assai frequentato dai francesi) e vi si ferma la settimana successiva. Nell'itinerario di quel grand tour che dal 1° settembre lo aveva condotto attraverso le città della Toscana (le visite compiute alla Certosa di Firenze e al Camposanto pisano sono determinanti nella formazione culturale del giovane architetto), Bologna non doveva essere che una tappa di passaggio, momento di “decompressione” prima di immergersi nel labirinto artistico veneziano.

Alla Scuola d' Arte di La Chaux-de-Fonds nel cantone di Neuchatel (dove Jeanneret era nato il 6 ottobre 1887 e dove si era formato accanto al pittore e decoratore Charles L' Eplattenier), il “viaggio in Italia” era considerato la canonica conclusione di un corso di studi teso a verificare le istanze della neue zeit sul patrimonio della storia. La modernità insomma, non nel segno della rottura col passato, ma come ultimo stadio di un processo evolutivo, una “tendenza” che pretendeva di vedere nell'età gotica l'apice della spiritualità umana e singolari analogie con l'esprit de l' epoque.

Il viaggio in Italia del 1907 ha sostanzialmente, per Jeanneret, il valore di una verifica; lo studio del gotico fiorentino, senese e pisano sarebbe servito a lui, come agli altri allievi di L'Eplattenier, per dare concretezza alle asserzioni del maestro, a fondere storia e modernità, aulicità e vernacolo, natura e architettura in un disegno rusckiniano tutto teso alla costruzione di un'arte regionalista, autoctona, “giurese-neuchatelese” come essi dicevano, che incarnasse in sostanza, le aspirazioni autonomiste delle popolazioni del cantone. Quale luogo migliore per condurre simili studi della Firenze d'inizio secolo, così propensa ai fermenti innovativi, già capitale di uno stato laico, attraversata dai sussulti scomposti di un proto futurismo, nonché “mirabile scrigno d' arte” come l'aveva definita Ruskin? Se i fantastici relevées che Jeanneret esegue visitando i monumenti che la lettura del Voyage en Italie di Taine o delle Matins à Florence di Ruskin gli suggeriscono, testimoniano di osservazioni scrupolose almeno quanto quelle di un Viollet le Duc, le annotazioni che le accompagnano, con la loro attenzione alla realtà materica e ai modi costruttivi esprimono perfettamente la volontà di finalizzare l'esperienza visiva ai futuri compiti progettuali.

Eppure, rispetto alla tradizione del grand tour che prevede per gli studenti delle scuole d'oltralpe le traiettorie perfette dell'itinerario definito dalla tradizione e dai programmi accademici, il viaggio di Jeanneret mette in moto una “stira diversa”; il suo percorso presenta non poche deviazioni impreviste (curiosità, ritorni improvvisi sui propri passi, disobbedienze apparentemente inspiegabili nel giovane svizzero tanto ligio agli insegnamenti del maestro) insomma, non pochi “deragliamenti”. Bologna, tra questi, è forse il più singolare di tutti. Gli esiti di questo soggiorno, su molte sue opere future, gli studi compiuti su alcuni documenti locali (come l'arca di Nicolò in San Domenico), le cartoline che acquista eppoi tutte annotate, gelosamente conservate, nella sua collection secrète di Parigi) non sono ancora stati esaurientemente valutati dalla critica. La perdita del suo carnet d'Italie del 1907, che sappiamo compilato con estrema precisione durante il viaggio, ci ha privato di quelle riflessioni grafiche sui monumenti bolognesi che potrebbero aprire (come è avvenuto per Pisa e Firenze) importanti prospettive di studio. In assenza di tali documenti dobbiamo accontentarci delle sua corrispondenza, di vaghe note sparse, di riflessioni marginali sufficienti però a ricostruire una “storia finita”, dimenticata e dagli esiti insospettati.

Come già era avvenuto per le visite alla Certosa fiorentina, pochi giorni prima, le scoperte che egli compie in San Petronio, a Santo Stefano, alla Mercanzia, al Museo Civico e alla Pinacoteca hanno le stesse caratteristiche folgoranti della “rivelazione”. Qualcosa di analogo avverrà quattro anni più tardi durante il celebre viaggio in Oriente, ad Istanbul, in Grecia, a Pompei e a Roma; le giornate bolognesi sembravano svolgersi nel segno di una vera “epifania architettonica”. Cosa avviene dunque, durante quei giorni di metà ottobre di ottanta anni fa, singolarmente caldi e trasparenti, propizi come il maggio alle passeggiate e alle lunghe soste davanti ai monumenti?

Entrato in san Petronio a mezzogiorno, il giovane Le Corbusier assiste al miracoloso ingresso del raggio solare nel foro della meridiana di Cassini. E' uno spettacolo particolare, insolito, che nessuno dei monumenti fiorentini aveva saputo regalargli e che ritroverà anni dopo solo a Santa Sofia o al Pantheon. L'ora cosmica dell'architetto, il colloquio del sole con le forme costruite – sintesi stessa della poetica corbusieriana – ha in questo singolare episodio una tale referenza a future soluzioni da lasciarci interdetti. Qualcosa di analogo avviene anche in Santo Stefano. Per quanto Taine relativizzasse il valore di entrambi i monumenti (la sua penna si mostrava assai più sensibile alla bellezza delle donne bolognesi che non a quella delle chiese), la vecchia guida paterna, il fedele Baedeker, coi suoi doppi e tripli “asterischi”, è sufficiente a guidare i passi di Le Corbusier a Santo Stefano, al Museo Civico e alla Pinacoteca.

Alle Sette chiese, il chiostro quadrato e la pianta circolare. del Santo Sepolcro (alla quale Seraux d'Agincourt tanta attenzione aveva prestato nella sua Histoire del 1814) sollecitano in lui riflessioni assai diverse di quelle fatte sui monumenti gotici fiorentini. Le semplici forme geometriche naturalmente accostate a formare un organismo complesso, le dimensioni ridotte del tutto, domestiche, comprensibili, misurabili e vista, la costruzione fatta di parti autonome raggruppate a formare un organismo vario e articolato entro il quale ci si muove come in una città in miniatura, assomigliano troppo a molte future proposte di Le Corbusier per non farci pensare a curiose, singolari analogie. Quando Lercaro nel marzo del 1965 gli chiederà un progetto di chiesa per Bologna, il vecchio maestro ormai vicino alla fine (morirà nell'agosto dello stesso anno, facendo il bagno a Cap Martin) deve essere andato con la memoria a quei lontani giorni bolognesi tracciando sul retro di una lettera una prima idea di eglise pour Bologne che troppa somiglianza mostra con l'organismo stefaniano, così come il singolare sistema escogitato per carpire la luce solare attraverso la cuspide della chiesa rimanda immediatamente allo schema della meridiana di San Petronio.

Ma non è tutto. Due notizie in quei giorni sono celebrate dalla stampa locale: l'ultimazione del palazzo delle poste in “cemento tinto” del Saffi e la morte ad Atene di Furtwaengler, il vecchio archeologo. Le Corbusier ignora la prima, ma è colpito dall'altra; Furtwaengler che aveva studiato per primo la testa dell'Athena Lemnia del Museo Archeologico attribuendola a Fidia, era assai noto negli ambienti dell'Ecole d'Art di La Chaux-de-Fonds. Secondo la sua interpretazione avvalorata da L'Eplattenier, Fidia era architetto, scultore, filosofo, uomo di scienza: l' artista “completo”, modello degli studenti dell'Ecole in quanto creatore di un'armonia e di un equilibrio che conciliavano (come pretendeva il loro maestro) arte e scienza. Le riflessioni di Jeanneret dinnanzi al frammento marmoreo hanno almeno una conseguenza immediata altre che lontane eco in tempi recenti: spingerlo di fronte all'altra grande testimonianza del classicismo esistente in città, la Santa Cecilia di Raffaello. Il Sanzio riguardato con sospetto e diffidenza (nell'acritica adesione alle teorie ruskiniane) per la sua perfezione troppo poco artigianale, troppo poco vera, si trasforma davanti ai suoi occhi nel novello Fidia. Quattro anni più tardi sarà lo stesso Michelangelo. Ma qui egli riesce a strappare al quadro il segreto di quella bellezza canonica, astratta, fuori dal tempo, incorruttibile che egli vorrà attribuire più tardi, proprio in omaggio a Raffaello, all'opera di Poussin e di Ingres, modelli e referenti della teoria del purismo pittorico sulle pagine de L'Esprit Nouveau.

A Bologna è quindi l'intero suo modo di vedere che cambia; la stessa innata curiosità per l'antico si sposta decisamente indietro, alla Grecia, a Roma, all'Egitto. Con l'amico scultore Leon Perrin che lo segue come un'ombra per tutto il viaggio, compie un' ultima lunga visita ai reperti etruschi del Museo Archeologico appena sistemati dopo le campagne di scavo dei Giardini Margherita per poi spingersi con una immotivata gita in treno , verso Porretta che però non raggiunge. Dove è andato il giovane Le Corbusier, ritornando per sera – come voleva Stendhal – per veder Bologna un'ultima volta al chiaro di Luna? Forse una visita agli scavi di Marzabotto?

Le parole scritte al maestro potrebbero confermarlo: “ho visto riproduzioni in grandezza naturale delle pitture etrusche, lezioni meravigliose che fanno respirare con tranquillità dopo i detestabili Carracci”. La fine del viaggio, che si conclude a Vienna dove Jeanneret si ferma tutto l'inverno seguente, avviene quindi col sigillo della classicità. Partito “gotico”, Le Corbusier è tornato “latino”. Tradito il vecchio maestro e le sue teorie non gli resterà che cambiare patria, pensando prima di trasferirsi a Roma, infine a Parigi. I viaggi che egli compie attraversi l'Europa, tra il 1908 e il 1911, avvengono tutti nella prospettiva di questa conversione . L'irrisione ai contemporanei che attraversa le lettere di questo periodo scritte al maestro da Vienna e dai Balcani, da Istanbul e da Roma hanno una motivazione nella scelta dei nuovi interlocutori: “... d'ora in poi parlerò solo con gli Antichi; gli Antichi rispondono a chi sa interrogarli”. E' un proponimento gravido di conseguenze. Il dissacrante inventore dell'architettura moderna stabilisce così anche una genealogia per la propria opera: il nuovo ha una ragione solo se rispetta le poche norme, le leggi eterne che l'Antichità ha distillato in un pugno di opere e che restano alla base di tutta la sofisticata costruzione del pensiero occidentale.

Giuliano Gresleri

Tratto da Bologna – Mensile del comune – Attualità, cultura, economia, costume e vita amministrativa – Anno di fondazione 1915. Anno LXXIV N.6/7 Giugno/Luglio 1988. Trascrizione a cura di Lorena Barchetti

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