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Il pomodoro nella tavola italiana

1837 | 1891

Schede

Il connubio pasta e pomodoro ci appare così naturale da farci pensare che risalga ai primordi della nostra civiltà alimentare. Se per uno degli ingredienti – la pasta – ciò è possibile, è invece del tutto improbabile per l’altro – il pomodoro – per il quale bisogna attendere la scoperta dell’America. Vediamo dunque di ricostruire brevemente la storia del piatto che, insieme alla pizza, connota più di ogni altro la nostra alimentazione e che vive il massimo trionfo proprio nell’Ottocento. Pur risalendo all’antichità romana, è nel Medioevo che appare la pasta con le diverse tipologie come oggi la concepiamo. Consumata soprattutto come pasta fresca, con gli arabi si diffonde, a partire dalla Sicilia, la pratica dell’essiccazione che la trasforma in un prodotto industriale adatto al trasporto e alla commercializzazione. Non è un caso che Genova, per i suoi assidui contatti con la Sicilia, si affermi come importante centro di produzione e di commercializzazione e che pertanto contribuisca notevolmente alla diffusione del prodotto. A partire dal Seicento Napoli diventa la capitale della pasta grazie all’adozione del torchio e della trafila, il cosiddetto ingegno, il cui possesso è la conditio sine qua non per diventare membro della corporazione dei pastai. Così, grazie alla pasta d’ingegno i napoletani, da mangiafoglie com’erano soprannominati per l’abitudine al grande consumo di verdure, si trasformano in mangiamaccheroni.

Caratteristica della pasta è che può essere declinata in migliaia di ricette. Non esiste infatti un altro prodotto al mondo che si presti ad una tale varietà di interpretazioni culinarie. Ad accompagnare la pasta fu, sin dal Medioevo, soprattutto il formaggio. A partire dal Cinquecento, quando nelle corti italiane predomina il gusto del dolce, si diffonde l’abitudine di spolverizzare sulla pasta zucchero e cannella e, per almeno un paio di secoli, le preparazioni dolci prevalgono soprattutto nell’alta cucina. Nella cucina quotidiana e famigliare, è invece frequente l’uso del burro e di una spolverata di formaggio grattugiato, di una salsa di noci, o di verdure rosolate nello strutto. L’incontro con il pomodoro avviene dunque dopo secoli di tradizione gastronomica. Un incontro alquanto misterioso, avvenuto con ogni probabilità nei quartieri popolari di Napoli. La diffusione del pomodoro, e delle piante americane in genere (soprattutto mais e patata), fu piuttosto lenta in Europa. Si deve ad Antonio Latini, cuoco marchigiano ma operante alla corte di Napoli nel XVII secolo, l’adozione del pomodoro, considerato ancora una curiosità esotica, con una salsa di pomidoro alla spagnola, una sorta di insalata tritata finissima con aggiunta di cipolla, timo, peperoncino e olio, adatta alle carni bollite. Poco meno di un secolo dopo, il pomodoro compare per la prima volta in una serie di ricette nel trattato, Il cuoco galante (dal 1778), a cura del grande cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado. Anche se non ancora in accompagnamento alla pasta, l’ambito delle applicazioni culinarie del pomodoro si è notevolmente ampliato: farcito con diversi ingredienti, in frittelle, in crocchette, ecc… Corrado, primo in Europa a cogliere le potenzialità gastronomiche del pomodoro, così scrive nel suo celebre trattato: varie gustosissime vivande si possono fare di pomidoro, ed infinite conditure col sugo loro si prestano alle carni, ai pesci, all’uova, alle paste, ed alle erbe, onde con ragione da un eccellente cuoco furon li pomidoro chiamati gustosi bocconi e salsa universale.

La consacrazione definitiva del pomodoro come compagno della pasta avviene poco tempo dopo, con un ricettario pubblicato nel 1837 e stampato più volte nel corso dell’Ottocento. Si tratta de La cucina teorico-pratica, di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, una sorta di summa della gastronomia napoletana sia nobile che plebea. Il capitolo che più ci interessa è l’ultimo in cui l’autore si sofferma sulla cucina casarinola, abbandonando i toni sostenuti delle ricette nobili e lasciandosi andare alla familiarità del dialetto e della quotidianità. Per la prima volta nella storia della letteratura gastronomica, nell’edizione del 1839, compare la ricetta dei vermicielli allo pommodoro, codificata a partire da un uso ormai ben radicato fra i napoletani. Nella pratica quotidiana, la diffusione della pasta al pomodoro si deve in gran parte ai venditori ambulanti, i cosiddetti maccaronari, così descritti da Matilde Serao: Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quattro quartieri popolari hanno una di queste osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomodoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Crotone (Il ventre di Napoli, 1884).

Un piatto in bianco, ovvero con formaggio e pepe, costa due soldi, con il pomodoro, tre soldi. Nella vivace parlata napoletana, a seconda del prezzo, questi piatti vengono chiamati o doje, oppure o tre, e quest’ultimo spesso con l’aggiunta rafforzativa garibbalde, con ovvio riferimento al colore della camicia garibaldina. Spesso, riferisce Matilde Serao, la porzione è piccola e il compratore litiga con l’oste, perché vuole un po’ più di sugo, un po’ più di formaggio e un po’ più di maccheroni. Caratteristici dei vicoli napoletani, tanto da ispirare quelle immagini pittoresche che gli inglesi comprano come souvenir, i maccaronari hanno inciso notevolmente sull’evoluzione di questo piatto. Innanzitutto hanno quasi sicuramente introdotto il pomodoro come condimento. Da Goethe che nei suoi Viaggi in Italia (dal 1787) descrive il lavoro dei venditori ambulanti che attivamente fanno i maccheroni grazie alle loro vaschette riempite di olio caldo, senza nessun riferimento al sugo di pomodoro, a Matilde Serao che, un secolo dopo, esplicitamente lo acclude nella sua descrizione, si coglie l’evoluzione di questo piatto che si avvicina sempre più a ciò che noi conosciamo. Inoltre i maccaronari, per accelerare il ritmo del loro servizio, con ogni probabilità hanno introdotto un concetto nuovo, quello della pasta al dente, sconosciuto nei secoli precedenti in cui la pasta veniva lungamente cotta. Infine la loro immagine pittoresca ha probabilmente contribuito a rafforzare quella di Napoli capitale della pasta. Riferisce Alexandre Dumas ne Il Corricolo (1846), raccolta delle sue impressioni di viaggio a Napoli, che Rossini, appena giunto in città e interrogato dall’impresario Barbaja sui motivi del suo viaggio, così rispose: Vengo a mangiare maccheroni e gelati. Sono la mia passione.

Due ricette. Dai primi decenni dell’Ottocento alla fine del secolo, il condimento al pomodoro si diffonde in tutto il paese, al punto che Artusi, di solito piuttosto restio ad includere ricette meridionali nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), ne descrive ben due, di cui una con la carne. Dalle due ricette trascritte di seguito così come appaiono in originale, si coglie l’evoluzione di questo piatto.

Vermicielli allo pommodoro - da La cucina teorico-pratica, di Ippolito Cavalcanti, 1839

Piglia rotoli 4 (700 gr ca.) de pommodoro, li tagli in croce, li levi la semenza e quella acquiccia, li fai bollire, e quando si sono squagliati li passi al setaccio, e quel sugo lo fai restringere sopra al fuoco, mettendoci un terzo di sugna (strutto di maiale). Quando quella salsa si è stretta giusta bollirai 2 rotoli (350 gr ca.) di vermicelli verdi verdi (cotti al dente) e scolati bene, li metterai in quella salsa, col sale e il pepe, tenendoli al calore del fuoco, così s’asciuttano un poco. Ogni tanto gli darai rivoltata, e quando son ben conditi li servirai.

Maccheroni alla napoletana - da La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, di Pellegrino Artusi, 1891

Per grammi 300 di maccheroni lunghi (spaghetti), che sono sufficienti per tre persone, mettete a soffriggere in un tegame o in una cazzaruola due grosse fette di cipolla con grammi 30 di burro e due cucchiaiate d’olio. Quando la cipolla, che bollendo naturalmente si sfalda, sarà ben rosolata, strizzatela col mestolo e gettatela via. In quell’unto a bollore versate grammi 500 di pomodori e un buon pizzico di basilico tritato all’ingrosso; condite con sale e pepe, ma i pomodori preparateli avanti perché vanno sbucciati, tagliati a pezzi e nettati dai semi più che si può, non facendo difetto se ve ne restano. Col sugo condensato, condite i maccheroni e mandateli in tavola, che saranno aggraditi specialmente da chi nel sugo di pomodoro ci nuoterebbe dentro. Invece dei maccheroni lunghi, possono servire le penne, anzi queste prenderanno meglio il condimento.

Marinette Pendola

In collaborazione con Associazione 8cento, estratto dalla rivista Jourdelò n. 8, Bologna, novembre 2007