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Il recupero dei sepolcri del Cimitero monumentale della Certosa

2006 | 2010

Schede

L’allarme riguardante la conservazione del complesso della Certosa lanciato a partire dagli anni Novanta da diversi studiosi e fatto proprio dal Comune di Bologna, ha portato nel corso degli ultimi anni alla moltiplicazione degli interventi di restauro dei sepolcri monumentali, un patrimonio sterminato interessato da un notevole livello di degrado passibile in alcuni casi di perdite definitive. I problemi sono ancora enormi, in particolare in riferimento alla precarietà dei coperti di diverse zone monumentali e alla presenza massiccia dei volatili, ma non c’è dubbio che molto è stato fatto per recuperare diversi sepolcri e per sensibilizzare i concessionari nei confronti di tombe di famiglia che versavano in alcuni casi in uno stato di pressoché completo abbandono.

Tra le numerosissime iniziative svolte, anche di recupero architettonico, ci si concentrerà in questo intervento esclusivamente sui lavori eseguiti sulle singole tombe, mettendo in luce, attraverso una breve analisi di alcune di esse, le questioni conservative che sono state affrontate e che costituiscono in linea di massima i principali problemi insiti ai materiali con cui i sepolcri vennero realizzati e le problematiche che il sito, dal punto di vista microclimatico, presenta.

È certamente difficile individuare delle emergenze in un complesso che presenta una tale vastità di tipologie artistiche e che si è sedimentato nel corso degli ultimi due secoli su di un complesso monastico esistente dal Medioevo, ma non vi è dubbio che, parlando della sola zona cimiteriale, il Chiostro Terzo o della Cappella, si è subito presentato come il nucleo che maggiormente richiedeva una concentrazione di sforzi. In questo sono infatti presenti le tombe più antiche, quelle realizzate subito dopo l’istituzione dello stesso cimitero comunale nel 1801, tombe di caratterizzazione tipologica tutta bolognese, essendo debitrici, come da tempo sottolineato da Anna Maria Matteucci, della tradizione quadraturistica e prospettica locale. In questo chiostro, dedicato ad accogliere le spoglie di coloro che si fossero distinti “per virtù, per dignità o per qualsivoglia maniera di studi o di arte”, molti dei sepolcri eseguiti, in particolare entro il 1815-1816, sono infatti dipinti murali che il tempo ha profondamente compromesso. Tra i sepolcri restaurati possiamo ricordare la tomba dedicata a Tarsizio Rivieri Folesani, professore di ostetricia e anatomia dell’Università di Bologna, realizzata nel medesimo 1801 dell’ornatista e architetto Flaminio Minozzi, la tomba del conte Ercole Orsi eseguita da Antonio Basoli nel 1803, la tomba del benefattore Bernardino Bargellini che, come la tomba dedicata al maggiore Giuseppe Salaroli, venne realizzata da Gaetano Caponeri in collaborazione con il figurista Pietro Fancelli, la tomba del pittore Vincenzo Martinelli, realizzata ancora da Pietro Fancelli, o la tomba di Salvatore Santini di Giuseppe Muzzarelli e Luigi Bendini.

La gran parte dei sepolcri dipinti presentavano un precario stato di conservazione della pellicola pittorica ed erano già stati oggetto di precedenti interventi di restauro, purtroppo privi di documentazione accertabile. Questi interventi, oltre che essere chiaramente leggibili nella situazione attuale, traspaiono con chiarezza anche dal confronto con alcune fotografie realizzate a inizio Novecento, conservate presso il Museo del Risorgimento di Bologna. In particolare, gran parte delle tombe presentavano un rifacimento e, a volte, una ridipintura, della parte bassa, quella maggiormente interessata dai danni creati dall’umidità di risalita, annoso problema di tutto il complesso. Questi rifacimenti, compiuti nel Novecento con l’intento di risanare l’opera, sono stati generalmente realizzati in malta cementizia, notoriamente non traspirante, che ha aggravato le problematiche anche nella parte alta dei dipinti, causando notevoli distacchi della pellicola pittorica. La cattiva conservazione di questi manufatti non è certo problema recente e forse dovette addirittura presentarsi in anni molto vicini alla loro realizzazione, se è vero che il regolamento del Comune prevedeva già nel 1815, nel caso di mancata manutenzione e restauro degli stessi, il sequestro ai concessionari dei sepolcri.La lettura spesso frammentaria di quanto sopravvissuto dell’opera, che in alcuni casi ha portato alla perdita di intere porzioni, è stata in parte colmata dalla ricca documentazione esistente, indispensabile strumento di indagine preliminare, riguardante sia l’aspetto progettuale che la fortuna visiva dell’opera. Ponendo tra i documenti di primario interesse i disegni progettuali degli artisti – certo rari, ma che stanno emergendo sempre più numerosi nei Gabinetti Disegni e Stampe cittadini come dimostra la presente esposizione –, tra i documenti ottocenteschi si possono ricordare i disegni con la riproduzione dei principali sepolcri eseguiti tra il 1801 e 1822 da Petronio Ricci, Monumenta inlustroria Coemiterii Bononiensis, conservati presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. Fanno seguito la serie a stampa di Raffaele Terry con incisioni dei monumenti presentati in sequenza cronologica, o ancora le due serie eseguite da vari incisori edite rispettivamente da Giovanni Zecchi e da Natale Salvardi.

Tutta questa “tradizione” visiva è stata alla base delle integrazioni realizzate in alcune zone dei monumenti stessi, in particolare nella zona inferiore in cui le malte cementizie sono state nella gran parte dei casi sostituite con malte a calce traspiranti, non certamente con l’intento di rifare in maniera fedele ad essi il mancante – spesso si incontrano delle discrepanze tra progetto ed opera eseguita e le traduzioni non sono sempre fedelissime – ma semplicemente per riequilibrare visivamente nel modo più leggero possibile – permettendo di distinguere la parte originale da quella ricostruite – la visione d’insieme, tanto più che le grosse lacune nella parte bassa avrebbero rischiato di creare, se integrate a neutro, un forte effetto di “galleggiamento” di immagini frammentarie slegate dal contesto unitario architettonico-visivo dell’intero chiostro. Questo è avvenuto per fare solo un esempio per la tomba Rivieri Folesani dove la ricomposizione del parato architettonico non si è certo spinta al rifacimento dei due leoni accovacciati che apparivano nelle traduzioni.

La realizzazione di sepolcri realizzati a pittura su muro (non a “buon fresco”) rallentò a partire dal 1815, a seguito del diktat estetico imposto dalla commissione dell’Accademia di Belle Arti incaricata, come ha approfondito nei suoi studi Antonella Mampieri, di valutare e approvare i progetti presentati al Comune. Secondo l’opinione di Pietro Giordani e di Carlo Filippo Aldrovandi, i monumenti dovevano infatti essere “o di Scultura o di Pittura che imiti il rilievo, cioè rappresentanti quelle sole cose che ragionevolmente mostrerebbe la Scultura”. Fu così che, a seguito di questa indicazione, a partire dal 1816 ebbe inizio la realizzazione di sepolcri scultorei, che prima si affiancarono alla produzione pittorica per poi sostituirla progressivamente. Questi nuovi sepolcri non vennero comunque ancora realizzati in marmo – il materiale assente nel bolognese risultava ancora troppo oneroso – ma eseguiti in stucco, terracotta e scagliola, materiali che trovarono ancora una volta nel 1823 la condanna della commissione accademica che notava come “non grato senso viene all’animo dall’opposizione tra la fragilità del gesso e l’eternità della morte”.

Tra le tombe recuperate in cui si mescolavano materiali diversi, possiamo ricordare il sepolcro Munarini realizzato intorno al 1823, ideato da Vincenzo Leonardi ed eseguito per le parti plastiche da Giacomo De Maria. Alle lastre in marmo policromo del sepolcro e delle lapidi, si affiancano modellate in gesso i geni funebri, l’urna situata in alto e i due festoni, mentre le fiaccole sono in legno stuccato policromo. Purtroppo perdute a seguito di furti sono le due torce forse già realizzate in bronzo al centro, la cui impronta sul marmo ricorda la loro antica presenza. Il restauro ha rivelato come l’abbandono dei colori dovuto al superamento della pittura fosse difficile da accettare da parte degli artisti attivi in Certosa. L’attuale sobrietà cromatica del sepolcro, non corrisponde infatti a quella che era la sua colorazione originaria. Tracce di pigmenti sono infatti state trovate su tutte le parti in gesso, insieme a finiture dorate che dovevano dare all’insieme un effetto policromo in contrasto con quanto suggerito dall’Accademia che chiedeva addirittura che anche le figure dipinte non imitassero il colore delle vesti e degli incarnati, ma che imitassero per contro “le statue di bronzo o di marmo”.

La presenza di statue e rilievi in gesso e stucco nelle tombe, non comporta minori problemi conservativi rispetto ai dipinti murali, in quanto questi materiali sono estremamente igroscopici ed in molti casi, come abbiamo appena visto, si è verificata la scomparsa della “pelle” superficiale delle parti plastiche. Inoltre, in alcune situazioni, eventi traumatici di vario genere hanno causato la perdita di intere parti modellate. È il caso, ad esempio del sepolcro del medico filosofo Gaetano Uttini, realizzato da Giovanni Putti – autore di ben 33 sepolcri in Certosa – nel 1817, dopo avere sottoposto il suo progetto in creta alla commissione artistica dell’Accademia nel 1815. Il sepolcro, restaurato con un cantiere scuola dell’Accademia di Belle Arti su iniziativa del Comune di Bologna, versava anch’esso in pessime condizioni conservative, proprio a causa dell’eccesso di umidità e dei forti sbalzi di temperatura presenti nel luogo. Inoltre, come accennavamo, alcune parti sono risultate inesorabilmente perdute, rendendo meno immediata la lettura iconografica delle figure. È così infatti che la Prudenza, astante sulla sinistra, è priva del serpente che teneva nella mano destra, mentre l’Allegoria dell’Anatomia, chiaro riferimento alla professione del defunto, manca della tavoletta con all’interno raffigurato un nudo, che già teneva nella mano sinistra. Con il restauro di questo sepolcro, il primo cronologicamente della lunga serie, si è affrontato il problema già sollevato nel 1998 da Cristina Zaniboni relativo alle modalità di segnalazione dei nuovi concessionari nelle tombe recuperate. Timore diffuso era infatti la possibilità che la legittima richiesta da parte dei nuovi concessionari di inserire nuovi nomi nelle tombe avesse portato a snaturare la loro leggibilità artistica. Mentre infatti nel caso di lapidi in marmo che già presentino iscrizioni e che dispongano di spazio per nuovi inserimenti risulta accettabile l'aggiunta di nuove epigrafi, nel caso delle tombe dipinte interventi di questo tipo avrebbero finito per snaturarne la lettura dell’impianto originario. Si è pertanto optato per posizionare la nuova lapide a terra, di fronte al sepolcro, trovando così un modo per mantenere in essere la funzione del cimitero con le necessità conservative.

Fu soprattutto a partire dal 1840, pur essendo stato realizzato interamente in marmo già nel 1817 il sepolcro di Carlo Caprara di Giacomo de Maria, che fecero ingresso in maniera massiccia nel cimitero le tombe interamente realizzate in questo materiale. Certamente meglio conservate di quelle dipinte e in gesso e stucco, le tombe in marmo presentano anch’esse diversi problemi conservativi, dovuti in particolare ad accumuli di sporco, alla presenza in alcuni casi di “croste nere” e a deformazioni dovute a sbalzi temici. Non mancano anche in questo caso problemi di rotture o lacune causate da eventi più o meno volontari. Rimanendo nel chiostro Terzo, possiamo citare tra le tombe restaurate, la tomba del prefetto Pietro Magenta, commissionata nel 1862 dal Comune di Bologna all’architetto Antonio Cipolla che si avvalse dell’intervento degli scultori Giovanni Battista Lombardi per le figure e Giuseppe Palombini per le parti ornamentali, o ancora la tomba dei coniugi Avogli Trotti eseguita da Giuseppe Pacchioni intorno al 1874.

Ma lasciamo il chiostro Terzo per segnalare restauri di altri sepolcri in altre zone della Certosa, riportando solo qualche esempio.

Se la tomba Garagnani, situata nella sala ellittica, ripresenta il problema dell’uso di materiali diversi (marmo, gesso, bronzo) interessati da policromie in parte perdute, la cappella Pallavicini, progettata da Antonio Zannoni, è un esempio di recupero ambientale in quanto il restauro, che non ha coinvolto la statua raffigurante Giovanni Luca Pallavicini eseguita da Giovanni Duprè, ha riguardato in maniera particolare i rivestimenti in marmo e in scagliola, questi ultimi in gran parte disgregati, staccati e deformati nel corso del tempo. Una menzione particolare merita anche la tomba dedicata ad Angelo Minghetti, fondatore dell’omonima manifattura ceramica, modellata da Alessandro Massarenti ed eseguita dai figli dello stesso Angelo. Si tratta di un prodotto di altissimo livello, originale sia per la tipologia – il recupero stilistico rinascimentale unito al “verismo” barocco del ritratto del defunto – che per la qualità della produzione ceramica. Il sepolcro è stato negli anni passati oggetto di furto di alcune delle sue parti più significative. I furti costituiscono senza dubbio una delle piaghe più dolorose del cimitero che, purtroppo, anche se si è verificato un lieve rallentamento negli ultimi tempi, continuano a produrre scempio delle opere più importanti. Al restauro dell’esistente si è accompagnato il rifacimento, sempre individuabile e riconoscibile, delle parti sottratte, esecuzione che ha messo in luce la difficoltà in tempi recenti di avvicinarsi alla raffinatissima esecuzione delle manifatture dell’epoca.

Segnaliamo infine tra le tombe che verranno presto recuperate dal Comune, la significativa cappella Rizzi, eseguita in stile Liberty da Roberto Franzoni, un trionfo di colori e dorature che, secondo il gusto dell’epoca, coinvolge nei minimi particolari tutto l’insieme. Un intervento che certo non potrà restituire l’integrità, ormai irrecuperabile, di gran parte del dipinto murale per metà perduto, ma che ridarà alla Certosa un poco di quel colore che come abbiamo visto, il tempo tenta inesorabilmente di cancellare. I restauri, molti più di quelli citati in questo intervento, sono stati realizzati da diversi operatori e sono stati finanziati sia direttamente dai concessionari che dal Comune che, grazie al sostegno della Fondazione della Cassa di Risparmio di Bologna, ha promosso il recupero di otto sepolcri. Eseguiti con la supervisione della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici e della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici, entrambe di Bologna, essi sono stati, a seconda della necessità, preceduti da indagini scientifiche realizzate sia da laboratori privati che dal Laboratorio Scientifico della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici di Bologna.

Elena Rossoni

Testo tratto dal catalogo della mostra "Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna", Bologna, 29 maggio - 11 luglio 2010.